L’estrazione di Bitcoin divora più energia dell’Italia. Ma c’è una via sostenibile per le cripto

Il consumo di energia elettrica causato dall’estrazione del bitcoin e i suoi impatti ambientali sono diventati un problema non trascurabile e potrebbero anche minare gli sforzi globali per contrastare i cambiamenti climatici. Lo attesta un’analisi delle emissioni di carbonio dovute alla blockchain del bitcoin in Cina, Paese dove si concentrano i tre quarti delle attività mondiali della criptovaluta. Il problema è dovuto alle caratteristiche degli algoritmi usati per fare funzionare la blockchain del bitcoin e del suo principale concorrente, la criptovaluta Ethereum. Lo studio è stato pubblicato il 6 aprile su Nature Communications da un gruppo di ricercatori cinesi (Shangrong Jiang, Yuze Li, Quanying Lu, Yongmiao Hong, Dabo Guan, Yu Xiong e Shouyang Wang) sulla base di modelli previsionali sulle emissioni di gas a effetto serra. Ecco perché alcune blockchain stanno già studiando il passaggio a una metodologia di calcolo diversa e meno energivora.

Se non vi saranno interventi politici del Governo di Pechino, il consumo elettrico della blockchain del bitcoin in Cina potrebbe raggiungere il picco nel 2024 a 296,59 Twh. A livello globale, una simile quantità di energia supererebbe quello consumata dall’Italia nel 2016 e collocherebbe il bitcoin al dodicesimo posto nella classifica dei Paesi che hanno consumato più elettricità. Ne deriverebbe l’emissione in atmosfera di 130,50 milioni di tonnellate di carbonio, una dimensione superiore a quella dei gas serra prodotti in un anno della Repubblica Ceca o del Qatar. A livello cinese, nel 2024 le emissioni prodotte collocherebbero il bitcoin tra i 42 principali settori industriali del Paese, con il 5,41% di tutti i gas serra prodotti dalla generazione di elettricità.

Il fatto è che il prezzo del bitcoin sale, a oggi intorno ai 50mila euro, e incentiva i miners, i minatori, ovvero coloro che acquistano apparecchi per “estrarre” la criptovaluta. Ma solo i “minatori” più veloci e potenti riescono a ottenere la ricompensa dell’estrazione sotto forma di bitcoin. Negli anni così si è innescata una vera e propria “corsa agli armamenti” verso l’impiego di hardware “minerario” dedicato, sempre più veloce e potente. Anni fa, ai minatori bastava usare la Cpu (Central Processing Unit) di base dei normali computer. Poi si è passati alle schede grafiche (Gpu) che offrivano maggior potenza. Infine, sono stati introdotti i circuiti integrati per applicazioni specifiche (Asic), progettati esclusivamente per eseguire i calcoli delle “miniere”. Alcuni impianti da minatore basati sulle ultime generazioni di Asic sono in grado di raggiungere 110 tera hash al secondo, cioé 110mila miliardi di operazioni per risolvere il problema di verifica di un blocco della blockchain e ottenere come ricompensa il bitcoin. Rapido sviluppo dell’hardware e maggior concorrenza hanno aumentato significativamente gli investimenti necessari a estrarre i Bitcoin. Così il mining della criptavaluta e l’hardware che deve funzionare costantemente hanno portato all’esplosione dei consumi di energia elettrica.

La questione è che la blockchain del bitcoin si basa su un algoritmo di consenso (il calcolo di una “prova” validata almeno dal 50% più uno dei nodi della rete) dei singoli blocchi che rende necessario l’impiego di enormi capacità di calcolo. Questa tecnica, chiamata Proof of Work (PoW, prova di funzionamento) consente alla blockchain del bitcoin di operare in modo relativamente stabile. Grazie alle sue caratteristiche di decentralizzazione, verificabilità e anonimato, la blockchain è ampiamente considerata come una delle tecnologie più promettenti e attraenti per una varietà di settori, dalla finanza alle catene di fornitura, dalla logistica alla gestione manifatturiera sino all’Internet delle cose (IoT). Inoltre la stessa Banca centrale cinese sta studiando la possibilità di introdurre una valuta digitale nazionale basata sulla tecnologia blockchain. Ma questa tecnologia ha come rovescio della medaglia uno spaventoso consumo di energia che causa pesantissimi impatti ambientali.

A causa della vicinanza alle fabbriche dove si produce l’hardware specializzato usato dai minatori e dell’accesso a elettricità a basso costo, la maggior parte del processo di mining è concentrato in Cina: ad aprile 2020 i minatori presenti nel Paese rappresentavano oltre il 75% del potere di calcolo della rete bitcoin. Alcune aree rurali in Cina sono considerate il luogo ideale per l’estrazione di Bitcoin principalmente a causa del prezzo più basso dell’elettricità e della grande disponibilità di terreni dove costruire le farm, le “fattorie” di macchine per l’estrazione della criptovaluta. Ma la Cina è anche uno dei principali firmatari dell’accordo di Parigi sulla decarbonizzazione energetica per ridurre e azzerare le emissioni che modificano il clima. L’accordo di Parigi è un’intesa mondiale che punta a limitare l’aumento della temperatura media dell’atmosfera. In base all’accordo, la Cina si è impegnata a ridurre il 60% delle emissioni di carbonio del 2005 entro il 2030.

L’attuale algoritmo di consenso Proof of Work usato dalla blockchain di Bitcoin può potenzialmente minare l’ampia implementazione e la sostenibilità della tecnologia blockchain. Tuttavia, i minatori tentano anche di ridurre il consumo di energia, cioé di migliorare l’efficienza del processo di mining dei bitcoin. Un impegno che non riguarda solo la blockchain della principale criptovaluta mondiale ma anche quello della sua più importante concorrente, Ethereum. Proprio Ethereum sta attualmente lavorando a un progetto di aggiornamento, noto come Eth2, che nelle intenzioni del suo fondatore Vitalik Buterin è destinato a sostituire il mining con lo staking, ovvero a sostituire l’“estrazione” come algoritmo di consenso della criptovaluta con la sua detenzione. In questa modalità, gli stakers soppianterebbero i miners: per proteggere e far funzionare la rete di Ethereum non dovrebbero più impegnare potenza di calcolo ma le loro criptovalute. Nelle intenzioni di Ethereum, questo dovrebbe superare il problema della potenza di calcolo impiegata come meccanismo di sicurezza della blockchain e ridurre i consumi energetici, dunque le emissioni di carbonio, di Ethereum del 99,98%. Se il progetto sarà realizzato, secondo quanto dichiarato dalla piattaforma open source blockchain il costo energetico di Ethereum si ridurrebbe a quello del funzionamento di un normale computer per ciascuno dei nodi nella rete.

A titolo di comparazione Ethereum ha usato i dati prodotti da Statista, una piattaforma online di ricerca. Secondo i dati al 21 marzo scorso, oggi per realizzare una transazione la blockchain bitcoin consuma elettricità pari a 821,48 kilowattora (kWh). Secondo Statista, invece, con appena 149 kWh di energia la rete delle carte di pagamento Visa realizza 100mila transazioni. Occorre ricordare che nell’ultimo esercizio chiuso al 30 settembre 2020, Visa ha contato un volume annuale di oltre 140 miliardi e 839 milioni di transazioni, per un consumo energetico che secondo Ethereum potrebbe aver raggiunto i 209,850 Gigawattora di elettricità. Ora la piattaforma blockchain afferma che, dopo le modifiche che sono attese in funzione entro l’anno prossimo con il progetto Eth2, le stesse 100mila transazioni costerebbero alla sua rete solo 17,4 kWh di energia, l’11% di quella usata da Visa per lo stesso numero di operazioni. Ma Ethereum non si ferma qui e sostiene che, con altre innovazioni in corso di sviluppo, il suo impatto ambientale potrebbe scendere ulteriormente. Una criptovaluta “sostenibile” è davvero possibile?

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