Archeologia, via le tutele per far spazio al recovery

“Signori ministri, segnaliamo con estrema preoccupazione l’ennesimo tentativo di sospendere le norme di tutela previste dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, contenuto nella bozza del dl Semplificazione delle procedure autorizzative per i lavori di costruzione di impianti per le energie rinnovabili finanziati con il Recovery plan”. Inizia così la lettera che le associazioni del settore archeologico (che rappresentano imprese, professionisti e lavoratori, docenti universitari e amministrazioni pubbliche) hanno inviato ai ministri della Cultura, dei Trasporti e della Transizione ecologica. La bozza di decreto voluta dal ministro Roberto Cingolani contiene, infatti, una serie di provvedimenti che preoccupa i tecnici. Il Testo (che insieme al decreto che fisserà la governance del Recovery dovrebbe arrivare la prossima settimana) è al centro di un braccio di ferro con il titolare dei Beni culturali Dario Franceschini – al punto che, in queste ore, parti molto controverse come questa potrebbero saltare o finire in un altro decreto – perché andrà a restringere o sospendere l’operatività degli uffici che si occupano di tutela ambientale, paesaggistica e archeologica, rispecchiando l’idea di Cingolani di ridurre i paletti che ostacolano i progetti che saranno finanziati dal Recovery.

Come? Anzitutto, proponendo di limitare le valutazioni di impatto ambientale alle sole aree già vincolate. “Si finge che tutto sia già conosciuto e, quindi, vincolato dove necessario. Ma non è affatto così. E chi ha scritto quella bozza lo sa – spiega senza Andrea Camilli, funzionario ministeriale e presidente di Assotecnici –. La tutela ambientale e archeologica, al contrario di quel che vuole la vulgata, è stata esercitata con estremo buon senso e criterio. Le Soprintendenze, che nei decenni hanno cercato di vincolare meno aree possibili, proprio per permettere all’Italia di costruire e innovarsi, oggi possiedono prerogative che permettono di tutelare il paesaggio anche al di fuori delle aree vincolate. Toglierle vorrebbe dire aprire la strada ad abusi e brutture, creando danni irrecuperabili”. Camilli sottolinea come nella bozza si punti a sospendere qualsiasi forma di tutela nelle aree confinanti a quelle soggette a vincolo: significherebbe che pale eoliche, ad esempio, potrebbero sorgere nei pressi di castelli o siti archeologici senza alcuna possibilità di progettare interventi condivisi. Perché il problema, secondo Camilli, non è certo la tutela, ma la cattiva progettazione. Concorda con questo punto Cristina Anghinetti, presidente di Archeoimprese. Lavorando da decenni con architetti e ingegneri – spiega – progettare insieme tenendo conto della tutela archeologica e del paesaggio diventa sempre più facile. Ma questo decreto, sostiene, appare dettato da chi quella progettazione la subisce, cioè chi ha interessi nei cantieri delle rinnovabili e non si cura di ambiente e patrimonio.

La bozza di decreto punta, infatti, anche a sospendere, in tutti i cantieri legati alle energie rinnovabili, l’archeologia preventiva, cioè quell’insieme di norme che consente di procedere con indagini preventive ogni qualvolta un progetto edilizio o infrastrutturale minacci il patrimonio. Norme a torto considerate come “blocca-lavori” ma che in realtà – al netto di piccoli o grandi rallentamenti (in molti casi le indagini durano pochi giorni) – consentono di raccogliere informazioni, modificare i progetti per tutelare il patrimonio archeologico o semplicemente accertarsi che la costruzione non vada a distruggere contesti d’eccezionale importanza storica. Il rischio è che i cantieri delle rinnovabili facciano da apripista, per poi arrivare a paralizzare le assistenze e gli scavi di controllo. “Non sappiamo ancora cosa abbiano in mente per le grandi opere previste dal Recovery plan”, conclude Anghinetti. Significherebbe bloccare una filiera che in Italia dà lavoro ad almeno 3.500 persone, che temono di vedere una contrazione o un annullamento delle commissioni.

Ne sono convinte le associazioni che rappresentano questi lavoratori, come la Confederazione italiana archeologi. Secondo la presidente Angela Abbadessa, se le norme fossero approvate, oltre a causare la perdita del lavoro per migliaia di professionisti, si creerebbe un “vulnus terribile alla tutela dei beni. Si tornerebbe ad avere i problemi che l’archeologia preventiva ha eliminato, ovvero il fermo postumo dei cantieri. Se la Soprintendenza deve intervenire a lavori iniziati, l’unico strumento che ha è bloccare i lavori, per quantificare i danni e riprogettare l’intervento per salvare il salvabile”. Abbadessa spiega che il grosso del lavoro degli archeologi si svolge proprio nei cantieri d’emergenza, con archeologi precari, come liberi professionisti o con contratti inadeguati. Cantieri in cui spesso emergono resti ancora non noti che a volte arrivano all’attenzione del grande pubblico o forniscono materiale per musei e ricerca. Intervenire per ridurre questo grado di emergenzialità sarebbe stato un ottimo modo per semplificare le procedure ed evitare rallentamenti.

“Avevamo proposto di utilizzare una piccola parte dei fondi del Recovery plan per ottenere una mappatura completa del potenziale archeologico su tutto il territorio nazionale, facilitando la progettazione dando o lavoro a tanti colleghi. I modi per semplificare e accelerare l’operatività esistono, le proposte non sono mancate: ma siamo stati completamente ignorati”. Abbadessa, come Anghinetti, prova una grande frustrazione nel notare che in un Paese che si riempie della retorica della bellezza e della cultura, gli archeologi e i professionisti della tutela del paesaggio e dell’arte siano stati completamente tagliati fuori dal Recovery plan, impedendo a una grande fetta di lavoratori di cooperare alla rinascita e resilienza di cui parla il Pnrr. “Si può rivedere l’archeologia preventiva nel suo sistema di gestione e nei suoi criteri, generando man mano automatismi, mettendo in condizione le Soprintendenze di funzionare meglio, di svolgere i propri compiti in rapidità. Ma i nostri uffici – conclude Camilli – sono in carenza di personale da decenni, costretti di volta in volta ad agire nell’emergenza. Questo è un decreto scritto senza contattare né chi si occupa di progettazione né di tutela: più che semplificare, crea nuovi problemi”.

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