Quanto conta la voce dei cittadini

 

Stefano Rodotà

UN TERREMOTO ha colpito domenica il sistema politico italiano.

Ne ha sbriciolato il vertice, come dimostrano le immediate e inevitabili dimissioni del Presidente del Consiglio, e la conseguente crisi di governo.

Ha bloccato il tentativo di impadronirsi della dimensione costituzionale facendola diventare affare di parte.

Non ha certificato la sconfitta di una persona, ma il fallimento di un progetto politico.

Questo progetto manifestava una forzatura evidente, e pericolosa, perché negava sostanzialmente la dimensione costituzionale come terreno comune di confronto, non riducibile alle esigenze della mera attualità politica.

La risposta popolare, affidata a un No che ha assunto dimensioni inattese, impone ora di considerare il modo in cui si intrecciano democrazia rappresentativa e democrazia diretta.

Una nuova legge elettorale, di conseguenza, non dovrebbe soltanto assicurare la governabilità sulla quale tanto si insiste, ma garantire anche quella rappresentatività che la Corte costituzionale, nel giudicare illegittimo il Porcellum, ha individuato come necessario principio di riferimento.

Intanto, dal mondo sindacale, con particolare convinzione, arrivano indicazioni importanti, affidate a scelte impegnative e, in più di un caso, innovative.

È stata imboccata con determinazione la strada dell’intervento diretto dei cittadini.

La Cgil ha raccolto più di tre milioni di firme su temi di particolare rilievo, che già occupano un posto importante nella discussione pubblica.

Si tratta della cancellazione di norme del cosiddetto Jobs Act – quelle riguardanti i voucher, divenuti sempre più strumento del precariato; la disciplina delle forme di reintegro nei casi di licenziamenti illegittimi, dopo l’abrogazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori; e le norme sulla responsabilità solidale nei contratti di appalto.

L’anno prossimo ci porterà dunque una stagione in cui la voce dei cittadini si farà sentire con particolare intensità.

Questa novità deve essere seriamente considerata perché conferisce una ulteriore, forte legittimazione all’istituto del referendum, divenuto ormai sempre più centrale nell’intero processo istituzionale.

Una dinamica, questa, che esige certamente una continua riflessione critica, ma che tuttavia non può poi tradursi in una diffidenza che spinga a non dare il giusto rilievo a quelli che sono sempre più spesso rilevanti dati di realtà.

E non può divenire l’occasione o il pretesto per non misurarsi fino in fondo con le trasformazioni che già il nostro sistema ha conosciuto proprio per effetto del moltiplicarsi delle occasioni in cui la decisione finale contempla un diretto protagonismo dei cittadini.

Il fatto che il più grande sindacato italiano abbia deciso di affidarsi al referendum per dar seguito concreto a sue iniziative assai impegnative rappresenta una innovazione significativa per il processo istituzionale nel suo complesso.

La stessa eventuale sottolineatura di possibili rischi o effetti negativi è parte di una corretta analisi realistica, che tuttavia non può giustificare disinteresse o addirittura rifiuto di una novità così rilevante.

Si deve piuttosto considerare il fatto che la prossima stagione politica sarà accompagnata da strategie nuove dei diversi soggetti sociali e, quindi, dalla messa a punto di forme politiche coerenti con questi cambiamenti.

Il sindacato si sta muovendo con modalità che inducono a ritenere che intende riprendere quel ruolo in largo senso istituzionale che gli era stato lungamente congeniale e che si era venuto indebolendo, o addirittura perdendo, in una stagione che ha visto la dichiarata ostilità del governo verso i corpi intermedi fino a escludere la legittimità stessa della loro consultazione.

Si sta operando una continua e progressiva modifica delle condizioni che rendono possibile le stesse forme dell’azione collettiva e le loro modalità.

Una eventuale disattenzione sindacale per questi mutamenti avrebbe come effetto una perdita di peso e di evidenza del sindacato stesso.

Diventa in questo modo chiaro che non si può perseguire una artificiosa separazione tra l’insieme del sistema e le sue diverse componenti, isolando e privilegiando solo, o quasi esclusivamente, quelle in cui si esprime direttamente la funzione di governo.

La presenza sindacale, in particolare, contribuisce a riportare l’attenzione sul merito delle questioni e a liberare almeno in parte la fondamentale materia costituzionale dall’impronta personalistica che ne ha finora marcato persino eccessivamente la discussione.

Nessuna politica sociale può assumere consistenza in un contesto in cui unico, o comunque principale, riferimento rimanga il solo governo.

 

(Articolo di Stefano Rodotà, pubblicato con questo titolo oggi 8 dicembre 2016 su “la Repubblica”)

la Repubblica 08.12.2016

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