La lobby dell’uranio dietro la decisione di Trump di tagliare il Bears Ears National Monument

 

Trump ha recentemente annunciato la sua decisione di tagliare di oltre un milione di acri l’area del Monumento nazionale, ridurre il monumento nazionale di oltre 1 milione di acri l’area del Bears Ears National Monument, nello Utah, ma, secondo  documenti ottenuti dal Washington Post, una compagnia dell’uranio stava esercitando da mesi pressioni su di lui e sulla sua amministrazione perché lo facesse.

Le associazioni ambientaliste sottolineano che la campagna lobbistica e la decisione di Trump dimostrano quanto l’amministrazione federale statunitense faccia gli interessi del Big Business a scapito delle terre pubbliche, dell’ambiente e della salute dei cittadini.

Il 5 dicembre Trump ha annunciato che avrebbe ridotto la superficie di due monumenti nazionali – Bears Ears e Grand Staircase-Escalante, entrambi i nello Utah – dopo una revisione attuata dal Dipartimento degli Interni che ha esaminato tutti i monumenti nazionali istituiti dopo il 1996.

Lo scopo dichiarato della revisione doveva essere quello decidere se l’Antiquities Act, che conferisce ai presidenti Usa il ​​potere di istituire i monumenti nazionali, fosse stato utilizzato impropriamente rispetto alle raccomandazioni delle comunità locali.

ThikProgress ricorda che durante un intervento al parlamento statale dell’Utah Trump ha detto che in un inglese come sempre spericolato «i nostri preziosi tesori naturali devono essere protetti e, da ora in poi, saranno protetti.  

Sotto la mia amministrazione porteremo avanti questa protezione attraverso un processo veramente rappresentativo, che ascolti le comunità locali che conoscono la terra come la  terra migliore e che nutre di più».

Il segretario degli Interni Ryan Zinke aveva ripetutamente negato che la decisione dell’amministrazione fosse stata influenzata da motivazioni industriali, asserendo di fronte ai giornalisti che «non si tratta di energia» e ripetendo più volte che «a Bears Ears non ci sono opportunità misurabili di petrolio e gas» e in un editoriale pubblicato nella CNN che difende la decisione di ridurre i monumenti nazionali, Zinke scrive che «in realtà ha solo proposto  un nuovo tipo di gestione delle terre pubbliche che “[ascolti] le voci della gente, non di Washington, DC, o gli interessi particolari».

Invece, secondo i documenti ottenuti dal Washington Post , gli interessi particolari sarebbero stati al centro della decisione di Trump e Zinke: la Energy Fuels Resources (USA) Inc., una filiale di una compagnia canadese che gestisce l’ultimo impianto di frantumazione di uranio Usa appena fuori dal monumento, ha affermato che la riduzione del monumento consentirebbe loro l’accesso depositi di uranio situati all’interno dei confini originali dei monumenti che potrebbero “fornire energia preziosa e risorse minerarie in futuro”.

Quando il presidente Obama ha designato l’area come monumento nazionale nel dicembre 2016, ha scelto di lasciare gran parte dei giacimenti di uranio della zona al di fuori dei confini ufficiali del Bears Ears National Monument, cosa che ha permesso alla compagnia uranifera i continuare le sue attività, ma ora sostiene che un monumento nazionale così grande avrebbe reso le sue attività più difficoltose, dato che sarebbe stato proibito costruire nuove strade e altre infrastrutture in tutto il Bears Ears.

Pressioni ben note a Zinke, visto che a giugno i parlamentari dello Stato dello Utah gli avevano scritto sostenendo che il monumento nazionale avrebbe potuto ostacolare il business dell’Energy Fuels Resources,  eliminando così per sempre l’industria mineraria dell’uranio dell’Utah, che è in mani canadesi.

La conferma che ci sono state forti pressioni della lobby dell’uranio rafforza la decisione delle comunità indigene e delle associazioni ambientaliste di portare in tribunale Trump e la sua amministrazione con l’accusa di voler svendere dei monumenti nazionali all’industria violando la legge Usa. 

Una sfida molto difficile da vincere per Trump e Zinke, visto che Bears Ears ha le  più alte concentrazioni  di siti culturali e archeologici degli Stati Uniti e che le tribù di nativi americani chiedevano da anni che quest’area venisse dichiarata monumento nazionale proprio per proteggere i loro luoghi sacri dall’industria mineraria.

Ma, come fa notare ThikProgress, Bears Ears non sarebbe la prima area protetta a venire aperta all’estrazione di uranio dall’amministrazione Trump: all’inizio di novembre, il Dipartimento dell’Agricoltura ha raccomandato di revocare un divieto ventennale di estrazione di uranio nello spartiacque del Grand Canyon in base all’ordine esecutivo  “energy independence” firmato da Trump a marzo, lo stesso che  ha avviato la rottamazione del Clean Power Plan  e la moratoria sulle licenze per estrarre carbone nelle terre federali che erano stati approvati da Barack Obama.

Le “rivelazioni” confermano le accuse di chi, come  Diana Best, climate campaigner di Greenpeace Usa, aveva subito detto che «riducendo drasticamente Bears Ears e Grand Staircase-Escalante, Trump sta facendo dei fregali alle compagnie minerarie e di trivellazione, ignorando sia i diritti degli indigeni che oltre un milione di osservazioni pubbliche,  quasi il 100% dei quali ha sostenuto la protezione di queste terre pubbliche. 

Ciò che avrebbe potuto essere protetto per le generazioni a venire ora rischia di essere sfruttato come fossero  terre desolate, grazie a un Dipartimento degli Interni pieno di fattorini del petrolio e del gas come il segretario agli ingterni Ryan Zinke e il vicesegretario David Bernhardt.  

La risposta dell’opinione pubblica alla revisione dell’amministrazione Trump di quasi 30 monumenti pubblici terrestri e marini ha battuto ogni  record, e la richiesta che queste terre e regioni marine dovessero rimanere protette è stata  quasi unanime.  

Dall’Alaska allo Utah, la gente dovrebbe sfidare questa mossa antidemocratica dell’amministrazione Trump e sostenere le tribù indigene che si preparano tribunale ancora una volta  ad andare lì per combattere per quello che è loro».

 

(Articolo pubblicato con questo titolo l’11 dicembre 2017 sul sito online “greenreport.it”)

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