Dove non si può cacciare…

 

Rilevante pronuncia da parte della Corte di cassazione in materia venatoria.

La sentenza Cass. pen., Sez. III, 17 settembre 2019, n. 38470 ha escluso che l’attività di caccia in violazione del divieto di sparo a meno di 150 metri in direzione di edifici destinati ad abitazione o posto di lavoro (e loro pertinenze), dalle strade pubbliche, ecc. possa costituire soltanto illecito amministrativo, sanzionato dagli artt. 21, comma 1°, lettera f, e 31, comma 1°, lettera e, della legge n. 157/1992 e s.m.i., nonché dalle leggi regionali in tema di caccia.

Secondo la Suprema Corte, “la violazione, da parte del cacciatore, del divieto di sparare a distanza inferiore ai centocinquanta metri in direzione di fabbricati destinati ad abitazione non costituisce illecito amministrativo, ma integra il reato di accensione ed esplosioni pericolose (art. 703 cod. pen.) (Sez. 1, n. 14526 del 01/03/2012, Francipelli, Rv. 252231), sì da escludere la natura speciale delle norme in genere fissate in tema di caccia, e quindi la configurabilità di un mero illecito amministrativo”.

Oltre alle sanzioni amministrative del caso, quindi, la fattispecie integra anche il reato di accensioni ed esplosioni pericolose (art. 703 cod. pen.), completando il quadro normativo applicabile dato dalla disciplina sull’attività venatoria.

Gruppo d’Intervento Giuridico onlus

dalla Rivista telematica di diritto ambientale Lexambiente, 10 ottobre 2019

Cass. Sez. III n. 38470 del 17 settembre 2019 (UP 24 mag 2019)

Pres. Andreazza Est. Cerroni Ric. Stella

Caccia e animali. Divieto di sparare a distanza inferiore ai centocinquanta metri in direzione di fabbricati destinati ad abitazione.

La violazione, da parte del cacciatore, del divieto di sparare a distanza inferiore ai centocinquanta metri in direzione di fabbricati destinati ad abitazione non costituisce illecito amministrativo, ma integra il reato di accensione ed esplosioni pericolose (art. 703 cod. pen.), sì da escludere la natura speciale delle norme in genere fissate in tema di caccia, e quindi la configurabilità di un mero illecito amministrativo.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 31 ottobre 2018 il Tribunale di Pordenone ha condannato Vinicio Stella alla pena di euro 1000 di ammenda per il reato di cui agli artt. 81 e 703 cod. pen. nonché 30, comma 1, lett. i) della legge 11 febbraio 1992, n. 157.

2. Avverso la predetta decisione è stato proposto ricorso per cassazione articolato su cinque motivi di impugnazione.

Il ricorrente ha dedotto inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 192 cod. proc. pen., 19 e 21 della legge 157 cit., nonché violazione dei principi dell’ignoranza inevitabile della legge penale, di determinatezza del precetto, del favor rei e dell’onere della prova.
2.1. Col primo motivo ha allegato la mancata considerazione di documenti decisivi acquisiti al processo, che davano conto dell’autorizzazione al prelievo della volpe, consentendone la caccia anche successivamente al tramonto con abbattimenti da autoveicolo con l’ausilio del faro.

2.2. Col secondo motivo il ricorrente ha osservato che il Tribunale aveva completamente errato nella valutazione del provvedimento, tra l’altro relativo al prelievo della nutria, laddove al contrario l’imputato aveva svolto la propria attività sotto il coordinamento del vice comandante provinciale, la cui testimonianza era stata del tutto ignorata dal Tribunale.

2.3. Col terzo motivo il ricorrente ha osservato di avere agito nell’ambito dell’autorizzazione rilasciata dalla Provincia di Venezia, per cui non poteva non ravvisarsi la scusabilità della condotta, avendo ottenuto specifica autorizzazione dalla Pubblica amministrazione e quindi avendo agito senza alcuna coscienza dell’illiceità della condotta.

2.4. Col quarto motivo è stata sottolineata l’illogicità della motivazione laddove era stato ritenuto il valore quasi confessorio del comportamento tenuto dal ricorrente, dal momento che prima di consentire il controllo da parte degli agenti della Polizia provinciale egli era rientrato nella vicina abitazione senza alterare alcun elemento d’indagine rilevante, mentre comunque le dedotte anomalie comportamentali non avevano costituito oggetto di alcuna imputazione.

2.5. Col quinto motivo è stato lamentato che era mancato del tutto l’accertamento sulla natura della strada su cui si trovava lo stesso Stella, e ciò avrebbe potuto essere accertato solamente in esito alle verifiche da compiere sulla documentazione urbanistica e viaria degli enti territoriali competenti, anche per assicurare la chiarezza e la determinatezza del precetto, con ogni conseguente interpretazione di favor rei e di distribuzione dell’onere probatorio.

3. Il Procuratore generale ha concluso nel senso dell’annullamento con rinvio.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Il ricorso è inammissibile.

4.1. Il provvedimento impugnato ha osservato, né al riguardo è stata formulata censura di sorta, che la responsabilità penale sussisteva comunque a carico dell’odierno ricorrente, ancorché in giudizio fosse stato allegato l’esercizio di un’attività autorizzata di caccia alla nutria nei termini previsti e consentiti dalla legge regionale.

In proposito, anzi, il provvedimento impugnato aveva escluso che fosse stata fornita prova di siffatta connotazione dell’attività venatoria, osservando altresì, e comunque, che il comportamento del ricorrente (in sé teso ad ostacolare le attività di accertamento da parte degli organi intervenuti della Polizia provinciale di Venezia) e lo stesso contenuto del provvedimento autorizzatorio (del tutto generico e tale da non consentire alcun effettivo controllo della specifica rivendicata attività) confermavano l’illiceità della condotta. Tra l’altro l’attività in questione era stata da tempo sospesa per decisione unanime dell’organo locale di vigilanza.

4.1.1. In definitiva, quindi, alcunché veniva detto circa la pretesa attività di caccia alla volpe, di cui non vi è traccia processuale nella sentenza impugnata, laddove al contrario i reati contestati e per i quali è intervenuta condanna (v. supra) appaiono senz’altro configurabili anche nell’occasione venatoria – comunque non provata, come ricordato dal provvedimento del Tribunale – di caccia alla nutria.

4.1.2. In proposito, infatti, quanto all’ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 703 cit., da un lato per via pubblica deve intendersi ogni strada che sia aperta al pubblico passaggio, comprese le vie di comunicazione tra fondi (dette vie vicinali), se possano essere liberamente percorse. Al riguardo, risulta accertato in fatto che la strada dove è avvenuto il fatto era aperta al pubblico transito, era censita nello stradario comunale, ed ancorché non asfaltata ed in zona agreste fungeva da collegamento tra altre strade parallele di maggior traffico. Né sono state evidenziate restrizioni di accesso al riguardo.

Una strada rientra infatti nella categoria delle vie vicinali pubbliche se sussistono i requisiti del passaggio esercitato jure servitutis publicae da una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad una comunità territoriale, della concreta idoneità della strada a soddisfare esigenze di generale interesse, anche per il collegamento con la pubblica via, e dell’esistenza di un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico (che può identificarsi anche nella protrazione dell’uso stesso da tempo immemorabile)(Cass. Civ. Sez. 2, n. 16864 del 05/07/2013; Cass. Civ. Sez. 1, n.  10932 del 02/11/1998). Siffatti requisiti erano quindi tutti presenti, né sono emersi – ed ancor meno sono stati allegati – divieti di accesso alla via dove era stato rintracciato l’odierno ricorrente, a bordo della propria autovettura, intento ad esplodere due colpi di fucile con arma da caccia in ora ormai di avvenuta chiusura dell’attività venatoria.

4.1.3. Al riguardo, infatti, il provvedimento impugnato ha correttamente evocato i principi più volte ribaditi da questa Corte, secondo cui la violazione, da parte del cacciatore, del divieto di sparare a distanza inferiore ai centocinquanta metri in direzione di fabbricati destinati ad abitazione non costituisce illecito amministrativo, ma integra il reato di accensione ed esplosioni pericolose (art. 703 cod. pen.)(Sez. 1, n. 14526 del 01/03/2012, Francipelli, Rv. 252231), sì da escludere la natura speciale delle norme in genere fissate in tema di caccia, e quindi la configurabilità di un mero illecito amministrativo.

D’altra parte, quanto all’ulteriore contravvenzione contestata, è invero superflua la distinzione operata dal provvedimento impugnato, dal momento che in ogni caso i colpi d’arma sono stati esplosi all’interno dell’autoveicolo attraverso il finestrino anteriore, abbassato, posto sul lato passeggero.
Invero, del tutto pacifica la circostanza che l’odierno ricorrente fosse intento ad attività venatoria, è stato parimenti osservato che integra la contravvenzione prevista dall’art. 30 comma primo, lett. i) della legge 11 febbraio 1992, n. 157  non chi utilizza il mezzo di trasporto per lo spostamento nei luoghi di esercizio venatorio o per il recupero della preda, ma colui il quale compie ad es. dal natante l’atto tipico della caccia, rappresentato dallo sparo contro la selvaggina, in ciò agevolato dal mezzo di trasporto, sia per l’appostamento, sia per il raggiungimento della preda anche in zone impervie, essendo irrilevante l’uccisione di animali, in quanto l’abbattimento e l’impossessamento di specie cacciabili non costituiscono elementi costitutivi della fattispecie (Sez. 3, n. 22785 del 17/03/2004, Bordiga, Rv. 228613). Mentre la tutela penale risulta ancor più rafforzata laddove si è sostenuto che integra il reato la condotta di chi si apposti in attesa di sparare la selvaggina avvistata, non occorrendo l’esplosione di colpi di arma da fuoco (Sez. 3, n. 42888 del 15/10/2008, Zecchin, Rv. 241647).

4.1.3. In definitiva, quindi, la sentenza impugnata ha appunto ravvisato nella condotta dell’odierno ricorrente l’esercizio illecito, nelle sue modalità, dell’attività venatoria così considerata.
4.2. Gli ulteriori motivi di censura, che in realtà neppure si confrontano appieno con la ratio della decisione impugnata, devono pertanto intendersi assorbiti. 

5. Ne consegue pertanto, alla stregua delle considerazioni svolte, la complessiva  inammissibilità del ricorso.

Tenuto altresì conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 2.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma il 24/05/2019

(Articolo pubblicato con questo titolo il 31 ottobre 2019 sul sito online del Gruppo d’Intervento Giuridico)

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