Jadav Payeng, l’indiano che ha creato una foresta con le sue mani

 

Riesci a distinguere un prato verde da un freddo binario d’acciaio?“, si chiedono David Gilmour e Roger Waters in “Wish You Were Here”.

Non c’è dubbio che una risposta saprebbe trovarla Jadav Payeng, l’uomo che ha dato vita ad una foresta intera.

L’uomo che, da solo, è riuscito a trasformare una lingua di sabbia secca minacciata dai cambiamenti climatici, in un ecosistema ricco di vegetazione ed animali, fabbrica di biodiversità.

Tutte le specie su questo Pianeta sono animali, inclusi gli uomini.

L’unica differenza è che gli uomini si mettono i vestiti“.

Quella di Jadav è una storia di abnegazione, di totale dedizione.

Una di quelle storie che ci fanno capire quanto potere abbia la volontà individuale e quanto sia facile incidere positivamente sul mondo, qualora lo si desideri davvero.

Profondo Nord-est indiano, stato di Assam.

Isola di Majuli, l’isola fluviale più grande del Pianeta che sorge tra le anse limacciose del fiume Brahmaputra.

Poche decine di migliaia di abitanti, dediti principalmente alla pesca ed alla coltivazione del riso.

Poche le case di cemento, al resto ci pensano argilla e bambù.

Majuli è un territorio vulnerabile che rischia di sparire nel giro di pochi decenni: l’area si è ristretta del 50% negli ultimi 70 anni.

Ondate di calore e siccità nel periodo estivo, inondazioni ed erosione del suolo nella stagione delle piogge.

Una convivenza quasi paradossale resa possibile solo dai cambiamenti climatici, i cui effetti laggiù sono di casa da molto prima che nascesse Greta.

Per fronteggiare la situazione, il Dipartimento delle Foreste indiano lanciò nel 1980 un piano che prevedeva la riforestazione di una piccola zona di circa 200 ettari a ridosso del fiume Brahmaputra.

L’obiettivo era proteggere l’isola dalle alluvioni nel modo più semplice ed efficace: tramite le radici della vegetazione.

Il piano fu interrotto tre anni più tardi.

 “Quella lingua di sabbia in estate è troppo arida perfino per le canne di bambù”, dissero.

Poche persone rimasero, tra queste un giovane di 16 anni: Jadav ‘Mulai’ Payeng.

Figlio di un mercante di bufali proveniente da una comunità tribale locale, Mulai non avrebbe mai immaginato di diventare trent’anni più tardi un attivista ambientale noto in tutta l’India.

Jadav era talmente legato a quel territorio che non sopportava di vederlo scomparire.

Rettili, serpenti e uccelli scomparvero progressivamente per le alte temperature e per l’assenza di vegetazione.

Non rimaneva nulla, se non sabbia e fango.

Così Mulai, all’inizio degli anni ’80 abbandonò la scuola e decise di dedicare la sua esistenza a quel fazzoletto di terra.

Cominciò col piantare ogni giorno semi di bambù.

I semi crebbero.

Via via che il terreno diventava più fertile, aggiunse altre varietà di piante.

Concime, semenze ed un’irrigazione ‘automatica’ con pentole di terracotta bucate e canne di bambù, erano i suoi strumenti.

Anno dopo anno le piante si sviluppavano, ma lui continuava a piantare.

Man mano che la vegetazione ricresceva, tornavano anche gli animali.

Prima le formiche, poi i lombrichi, quindi alcune specie di uccelli.

Ogni singolo giorno, Mulai usciva dalla sua fattoria, saliva su una barca e attraversava il grande Brahmaputra.

Poi un lungo cammino fino alla secca.

Altri semi, altri alberi.

L’azione del tempo.

Mulai anno dopo anno è cresciuto insieme alle piante che ha seminato ed è diventato il Signor Payeng, una moglie e cinque figli.

Nel 2008 il Governo indiano si accorse finalmente di lui e di quella che era diventata la ‘sua’ foresta.

Si, perché una mandria di un centinaio di elefanti si era stabilita in un’area che le cartine non riconoscevano più.

Trent’anni prima era una striscia di terra senza vita.

La passione di Mulai l’aveva trasformata completamente.

Oggi la foresta – nota in India come “Riserva Mulai” – ha raggiunto una grandezza ed una diversità fenotipica tali da garantirle l’autosufficienza.

Più di cento varietà vegetali tra cui l’Arjuna, il Flamboyant, l’Albizia e l’albero del cotone, ricoprono 550 ettari di terreno (circa 860 campi da calcio).

Migliaia di piante, che costituiscono un habitat naturale completo per una fauna impensabile prima dell’intervento di Payeng.

Rettili, conigli, cervi, ma anche rinoceronti indiani e addirittura tigri del Bengala.

Jadav ha creato con le sue due mani e nessun altro mezzo, un intero ecosistema.

La sua storia ha ispirato un docu-film intitolato “Forest Man”, diretto da William McMaster e presentato al Festival di Cannes nel 2014.

Mulai è diventato anche protagonista di una graphic novel per bambini tradotta in varie lingue e letta nelle scuole.

Il Governo indiano l’ha decorato con il Padma Shri, una delle più alte onorificenze civili della Repubblica.
La sua missione però non è certo terminata: la foresta ha bisogno di cure.

Deve essere protetta principalmente dall’uomo, la specie animale più pericolosa secondo Mulai.

La deforestazione è la seconda causa di global warming, dopo l’utilizzo dei combustibili fossili e produce circa il 24% delle emissioni di gas serra totali.

Le Nazioni Unite stimano che le foreste custodiscano ad oggi più dell’80% della biodiversità del Pianeta.

Preservarle è fondamentale per ogni specie, inclusa quella umana.

A chi gli chiede cosa farà in futuro, ‘Forest Man’ risponde che continuerà a piantare alberi, finché ne avrà la forza.

(Articolo di Matteo Grittani, pubblicato con questo titolo il 12 marzo 2020 sul sito online del quotidiano “la Repubblica”)

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