Porti e ferrovie, la grande illusione della ricrescita

 

Grandi opere per uscire dalla crisi.

Sarà una buona idea?

Ne parlano i ricercatori di Re:Common nel rapporto «La Grande Illusione. Zone economiche speciali e mega corridoi infrastrutturali, la strada giusta?» pubblicato sul sito www.recommon.org.

La ricetta non è nuova, ma il rapporto entra nel merito facendoci vedere che ciò che ci viene proposto questa volta non sono solo le stesse grandi opere inutili, ma un nuovo modo di pensare e mettere in pratica la globalizzazione, per ridurre tempo e spazio, con l’obiettivo di aumentare continuamente i profitti sbandierando il mantra del just in time.

È questa la logica dei «mega-corridoi infrastrutturali», un nuovo modo di organizzare la produzione e il trasporto su scala globale, che prevede la costruzione di nuove ferrovie per il trasporto merci ad alta velocità, l’ampliamento di porti perché possano accogliere mega navi container capaci di trasportare 20 mila e passa Teu (equivalente a un container per l’esportazione) facendo il giro del mondo.

Ma anche la costruzione di piattaforme logistiche di centinaia di ettari, nuove centrali a gas e a carbone per produrre l’energia necessaria alla digitalizzazione di ogni passaggio della logistica globale, orientata a inglobare la produzione stessa in una trasformazione radicale dei processi produttivi e di come vengono finanziati.

Un modello estremamente energivoro, radicato nei combustibili fossili e orientato a facilitare l’estrazione delle risorse naturali fino all’ultimo grammo – o all’ultima goccia – e l’estrazione massima di profitto a ogni passaggio della catena di produzione.

Ma come si declina questa agenda globale nel Belpaese?

Il rapporto guarda ai casi di Taranto e di Trieste, due porti e due poli siderurgici che per decenni hanno navigato a vista passando da una crisi economica all’altra.

Da qualche anno però qualcosa è cambiato, aprendo uno spiraglio di speranza in entrambe le città.

La Cina ha infatti scelto di puntare su Taranto e Trieste, inserendole nel più avanzato dei piani di mega-corridoi globali, la Belt and Road Initiative.

Conosciuta anche come la Via della Seta, è cara al governo cinese e pure alla Commissione europea, ed è utilizzata dagli imprenditori del cemento e del mattone, così come dagli architetti della finanza e della logistica globale, per raccontare l’economia del futuro di cui anche il governo Conte vuole fare parte.

A Trieste, dove il porto sta vivendo una rinascita grazie alla riorganizzazione interna messa in atto dalla gestione D’Agostino – che gli ha permesso in poco tempo di diventare più efficiente, di riorganizzare i trasporti ferroviari (tramite una società in house a controllo pubblico) e guadagnare terreno rispetto ai competitor nell’Alto Adriatico – ora si punta tutto sulla zona franca internazionale e sulla costruzione di una piattaforma logistica da duecento ettari, che ha suscitato l’interesse del governo cinese e di altri investitori stranieri.

A Taranto, la scommessa si radica nel Decreto Sviluppo 2018, che norma la creazione di diverse «zone economiche speciali» nel centro-sud Italia.

Fiore all’occhiello, alcune aree industriali di Taranto e lo stesso porto, che puntano a un rilancio senza precedenti grazie anche ai particolari vantaggi che verranno garantiti agli investitori stranieri che si lanceranno nell’impresa.

La riduzione dei controlli doganali e le semplificazioni nelle procedure, che accorciano i tempi per alcuni tipi di autorizzazioni, fra le quali quelle ambientali, in un territorio martoriato come quello tarantino suona come un campanello d’allarme e viene da chiedersi che tipo di sviluppo si stia ri-proponendo.

Il Decreto Semplificazioni, con le sue 130 opere strategiche da sbloccare, vanno in questa direzione.

Puntano a completare una parte delle infrastrutture di trasporto promesse nei vecchi corridoi europei – Tav in testa – oggi rivisitati e adattati alla luce dei nuovi corridoi globali.

Ma i dubbi e gli interrogativi sono tanti.

Ci troviamo al cospetto di un’opportunità da non lasciarsi scappare, oppure gli investimenti stranieri e i tanto agognati nuovi posti di lavoro nell’ambito della logistica e dei trasporti finiranno per offuscare gli aspetti della salute pubblica, dell’equilibrio con l’ambiente naturale e del modello di sviluppo di cui si stanno gettando le basi?

Il timore è che, invece di imparare dagli errori del passato, se ne commetteranno altri, stavolta con effetti potenzialmente irreversibili.

(Articolo di Elena Gerebizza e Filippo Taglieri, di Re:Common, pubblicato con questo titolo il 16 luglio 2020 su “L’Extraterrestre” allegato al quotidiano “il manifesto” di pari data)

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