Blu al naturale, le piante tintorie colorano la storia

 

A inizio 2020 il Pantone Color Institute aveva annunciato come colore dell’anno il Classic Blue, poiché capace di infondere calma, fiducia, senso di connessione, resilienza.

Tutte virtù che nei mesi a venire del periodo blu degli anni 2000 si sono dimostrate particolarmente utili, già da quel 23 gennaio del lockdown di Wuhan (peraltro vigilia del Blue Monday, il giorno più triste dell’anno, a voler stare dietro alla mania di riconoscere specifiche responsabilità a tutti i nostri santi giorni).

PIU’ APPROPRIATO DEL LIVING CORAL – ma meno certamente del Nero di China – il Blu classico si addice al bisogno di sobrietà e relazione delle fasi 1,2,3 e 4 dell’anno pandemico e in Italia, nel Montefeltro in particolare, si stempera alla fine di quest’anomala estate in una ancor più rassicurante, polverosa, sfumatura; è quella del blu naturale che si ottiene dalla pianta tintoria dell’Isatis.

Comunemente chiamato guado è l’antichissima e fondamentale materia prima necessaria per la produzione del pigmento blu rintracciato presso insediamenti neolitici, nei colori del vasellame risalente all’età del Ferro, nelle bende di mummie egiziane.

Il blu guado, si evince dal Commentarii De Bello Gallico di Giulio Cesare che lo indica col termine vitrum, sarebbe stato anche colore di guerra per i picti delle tribù normanne, che sembra lo usassero non solo per dipingersi il volto ma anche per inciderlo con tatuaggi a valenza mistico- religiosa.

QUESTA PIANTA ERBACEA DELLA FAMIGLIA delle crucifere ha origine asiatiche e, forse importata dai Catari dapprima in Piemonte, è oggi presente nel centro Italia, in Sicilia, in Sardegna e nel trevigiano; proprio nel Montefeltro, oltre che in Germania e in Francia, il guado ha conosciuto una lunga stagione da protagonista per tutto il Medio Evo fino al 1600, quando veniva usato non solo per colorare terrecotte ma anche affreschi, arazzi (è guado ogni blu presente nel celebre ed enigmatico ciclo fiammingo La Dama e l’Unicorno) e manoscritti e faceva la fortuna tra gli altri del padre di Piero Della Francesca, Benedetto, mercante di San Sepolcro che lo commerciava.

A SOPPIANTARE IL GUADO COME TINTURA tessile (i pigmenti per la pittura si ricavavano anche con processi chimici a base di lapislazzuli e di quell’azzurrite cara a Durer) fu l’indicum indiano, inizialmente malvisto e boicottato perché ritenuto «pernicioso, ingannevole e corrosivo» ma caratterizzato da una maggiore semplicità di produzione; quindi entrambi sono stati scalzati nell’Ottocento dalle colorazioni sintetiche, quelle di cui si occupa la Pantone Inc. e a cui aprì la strada William Henry Perkin scoprendo la malveina; oggi però è in atto in Europa un processo di riscoperta della pianta e del suo pigmento che vede una tappa importante nella provincia di Pesaro e Urbino, a Borgo Pace, frazione di Lamoli (dove ha sede il Museo dei Colori Naturali).

Lì Maria Stella Rossi, artista diplomata alla Scuola del Libro e specializzata nello studio di pigmenti naturali, è tornata a vivere dopo peregrinazioni da New York alla Francia (tra Tolosa, Albi e Carcassone: il triangolo della produzione francese del guede o pastel fino a metà Settecento) e ha dato vita a #destinazioneguado.

SI TRATTA DI UN PROGETTO FINANZIATO dall’Unione Europea con la Regione Marche e sviluppato all’interno del contenitore della dimora artistica ValdericArte, tra i boschi dell’Alpe della Luna e sulle rive del Fosso di Sant’Antonio: un piccolo affluente del Meta che a Borgo Pace si unisce con l’Auro dando vita al fiume Metauro, quello della battaglia di Asdrubale, che percorre la valle dove crescono i vitigni del Bianchello, e anche le infiorescenze del guado.

L’idea imprenditoriale di Maria Stella è quella di aprire un centro di servizi, ricerca e sperimentazione sul guado: una micro-impresa culturale, creativa, artigianale, artistica, turistica, con la realizzazione, tra le altre cose, di una biblioteca, di un percorso espositivo storico-tecnico-botanico tematico sulle piante tintorie, di un giardino. Al centro dell’iniziativa il ripristino della macina da guado, cuore medievale del processo di estrazione del colore; questo prevede la riduzione delle foglie fresche in poltiglia condensata in una pasta raccolta in quei panetti che nei territori occitani erano anticamente chiamati coques o cocagnes: pani di pasta tintoria pronti per la vendita e a lungo fonte di grandi ricavi.

Di qui, l’espressione «Paese della Cuccagna», o almeno una delle sue possibili genesi.

SEMPRE IN FRANCIA NEL SEDICESIMO secolo i contadini usavano recuperare i residui di lavorazione del pastel dal fondo delle vasche tintorie per dipingere i loro carri: la pianta ha infatti tra le sue proprietà anche quella di repellente per gli insetti.

Di qui il nome, per il blu del guado, di blu pastello o blu carretto.

La pasta prima di diventare panetto è soggetta a fermentazione, quindi a una sorta di stagionatura, cui seguono sbriciolatura, macerazione, essiccazione e riduzione in una polvere dall’inconfondibile colore: il pastello per antonomasia, un punto di blu più chiaro di quello che indichiamo come Indaco (il blu non blu dell’arcobaleno), più saturo rispetto all’Azzurro Cielo, meno neutrale del blu dei Caschi Blu.

Può avvicinarsi al Blu Fiordaliso, leggermente più scuro e il cui nome greco è kyanos, il ciano che spesso le nostre stampanti ci invitano a ricaricare.

L’IDEA NATA NELLA VALLE DEL METAURO è quella di valorizzare la pianta nelle sue diverse applicazioni: oltre a contenere principio colorante infatti , il guado è stato utilizzato nei secoli come alimento, foraggio, medicinale, cosmetico.

Spiega Maria Stella Rossi: «Vorrei far riscoprire il mondo dietro a questa pianta e svilupparne tutte le possibili declinazioni contemporanee: divulgare la storia, la cultura, la tradizione legata al guado, costruire un progetto attivo di fusione tra ricerca artistica e arti applicate, tra pratiche alchemiche e scienza, tra artigianato di popoli antichi e innovazione creativa legata alla pianta, creare un punto di riferimento nella regione, che in collaborazione con altre realtà marchigiane diventi un punto di riferimento nazionale sul guado».

Ad affiancarla nella presentazione del progetto, domenica scorsa a Borgo Pace, Alessandro Maria Butta, socio della Cooperativa La Campana – a Montefiore dell’Aso, in provincia di Ascoli Piceno – per cui è responsabile della ricerca sulle tecnologie applicate alle tinture naturali di cui in Italia è esperto di riferimento.

E se per fare il blu si cerca «l’oro del Montefeltro» (che anche nella città ducale è tornato alla ribalta col progetto legato all’Associazione culturale Guado Urbino di Alessandra Ubaldi), è diffuso anche tra i più accorti imprenditori del calzaturiero marchigiano ricorrere all’ortica per il verde, alla robbia per il rosso e alla reseda luteola per il giallo.

QUEST’ULTIMA IN PARTICOLARE è coltivata, raccolta e venduta come pianta o già come pigmento da una biologia molecolare a Belvedere Ostrense – sempre Marche ma provincia di Ancona – Sandra Quarantini, fondatrice della start up Color off, che punta sul giallo ma si dedica a molte altre piante tintorie.

Ennesimo esempio di intrapresa e progettualità femminile tra scienza, artigianato, innovazione e tradizione.

(Articolo di Silvia Veroli, pubblicato con questo titolo il 3 settembre 2020 su “L’Extraterrestre”  allegato al quotidiano “il manifesto” di pari data)

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