Oltre il 70% della popolazione italiana è più povera oggi di 30 anni fa

 

Negli ultimi 30 anni, il 70% della popolazione italiana ha subito (in termini di reddito prima delle imposte) un calo del proprio tenore di vita, con crolli anche del 20%-30% per i ceti meno abbienti, mentre solo il 10% della popolazione sta meglio ora che alla fine degli anni ‘80.

E paradossalmente oggi a perdere sono i gruppi sociali probabilmente più produttivi (i giovani, le donne, gli immigrati) mentre vincono i portatori di privilegi e rendite, come spiega il paper Investimenti e riforme per un vero “recovery plan” dell’Italia elaborato da Cristina Bargero, Lorenzo Fioramonti, Michele Geraci, Francesco Grillo e Rossella Muroni.

Grazie all’accordo raggiunto in sede europea, le risorse per cambiare rotta e impostare un modello di sviluppo davvero sostenibile – ambientalmente, socialmente ed economicamente – saranno ingenti per la prima volta da molto tempo: si parla di 209 miliardi di euro tra sussidi (82) e prestiti (127), da spendere per il 37% minimo su obiettivi legati al Green deal.

Ma non c’è vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare.

Per questo il Governo italiano dovrà adesso sviluppare un piano di azione assai ben delineato per poter accedere alle risorse europee, e il paper offre un’utile bussola per orientarsi.

Visto l’andamento riscontrato nell’ultimo trentennio, non a caso gli autori pongono tra i primi punti la necessità di arrivare alle persone (famiglie e soprattutto giovani), con l’obiettivo di aggredire le diseguaglianze che, ormai, sono forte fattore di rallentamento della crescita.

Occorre dunque aumentare la dotazione e la qualità dei servizi pubblici e ridurre le vulnerabilità della nostra società, mettendo al centro la salute delle persone e la sicurezza economica di lavoratori ed imprese, migliorando la capacità del sistema paese nel suo complesso di rispondere alle crisi collettive (Covid-19 è solo l’ultimo esempio), che molto probabilmente diventeranno una costante dei prossimi anni.

Tra i perni di questa transizione individuati dagli autori, i primi due sono di particolare rilievo: porre le basi per una Repubblica fondata sulla conoscenza e (dunque) portare avanti un transizione industriale eco-compatibile.

La prima esigenza nasce da una semplice constatazione: tra i principali fattori che determinano la produttività di un’economia assume un ruolo sempre più centrale la capacità di innovazione, ma paradossalmente il nostro rapporto spesa in ricerca e sviluppo (R&S) è fermo da tempo al 1.3%, tra i più bassi non solo nelle economie avanzate, ma anche tra molte economie emergenti.

Invertire la rotta, con un grande investimento nella formazione a tutti i livelli e nella ricerca, sia di base sia applicata, è ormai imprescindibile.

Anche economia circolare e transizione ecologica sono ormai delle scelte obbligate, non solo per motivi di carattere ambientale, ma anche perché – come sottolineano gli autori del paper – aumentano la resilienza del sistema e la sua innovatività.

Ciò richiede scelte nette, soprattutto nei confronti di alcuni settori industriali.

Un esempio su tutti: «L’energia fossile è in crisi in tutto il mondo e lo sarebbe anche senza Covid-19: continuare a spendere miliardi di euro in sussidi ambientalmente dannosi vuol dire rallentare la transizione e rendere ancora più vulnerabili alla competizione internazionale quei posti di lavoro che, invece, potrebbero essere tutti riconvertiti alla produzione energetica rinnovabile e all’efficientamento energetico degli edifici e delle infrastrutture».

Al contempo, si troverebbero nuove risorse per sostenere sempre di più le industrie ‘pensanti’, cioè quelle legate all’economia della conoscenza.

(Articolo di Luca Aterini, pubblicato con questo titolo il 16 ottobre 2020 sul sito online “greenreport.it”)

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