Taiwan resta a secco: la tecnologia rischia il black-out mondiale

n Italia – Nell’ultima settimana aria fresca e instabile ha ancora indugiato generando rovesci e temporali sparsi, anche forti grandinate domenica scorsa a Roma, Olbia e Palermo, martedì intorno a Udine e giovedì a Forlì, e qualche nevicata a 1.000-1.500 metri dalle Alpi, alla Sardegna, alla Sila. Piogge abbondanti da 30-50 mm lunedì presso Otranto e giovedì sul basso Lazio, mentre a parte gli acquazzoni irregolari il Nord è rimasto più asciutto. La seconda decade di aprile è risultata una delle più fredde da decenni in tutto il Paese con temperature sotto media da 1 a 3 °C (all’osservatorio di Parma tocca risalire al 1958 per trovare una metà di aprile così fresca), tuttavia questo weekend sta finalmente regalando tempo più soleggiato e tiepido, e ieri pomeriggio c’erano 23 °C a Firenze e Alghero.

Nel mondo – “Surigae”, rimasto per fortuna al largo delle Filippine, sabato 17 è divenuto il più violento ciclone tropicale mai registrato al mondo in aprile con raffiche di vento fino a 315 km/h (categoria 5). L’arcipelago, per quanto solo lambito dalla tempesta, ha comunque subito danni rilevanti e almeno 7 vittime. Siccità e incendi in Nepal, soffocato dai fumi dei quarantamila roghi divampati da gennaio, e in Sudafrica, dove a Città del Capo il “Table Mountain fire” ha bruciato la biblioteca dell’Università e lo storico Mostert’s Mill, il più antico mulino a vento ancora esistente nel Paese. Carenza idrica pure a Taiwan, dopo che il 2020 è stato l’anno più caldo di sempre e con metà della pioggia normale sulle montagne. Gli invasi da cui dipende l’industria dei semiconduttori che alimenta l’elettronica mondiale sono quasi a secco, e per tentare il salvataggio del settore le autorità hanno sacrificato l’agricoltura interrompendo le forniture d’acqua per l’irrigazione. Piogge alluvionali invece nel Nord-Est dell’Australia (oltre 400 mm in una settimana nella zona di Cairns), ma pure in Perù, Cambogia e Angola, qui con 24 morti nella capitale Luanda. Gran parte d’Europa è ancora rimasta al freddo, e in Francia la media nazionale delle temperature notturne della seconda decade di aprile (3 °C sotto norma) è stata la più bassa dal 1947 insieme ai casi del 1954 e 1978. Per contro calori straordinari ancora una volta dal Nord Africa, al Medioriente (38,4 °C a Damasco), al Caucaso, fino a Corea del Sud e Giappone (record di 30-31 °C). Caldo improvviso e inusuale anche in Alaska con i 24 °C più precoci nella storia dello Stato. L’Organizzazione meteorologica mondiale ha diffuso il suo State of the Global Climate in 2020, i cui indicatori – nonostante il rallentamento delle attività umane per la pandemia – continuano a lampeggiare in rosso sul cruscotto dell’astronave Terra: è stato uno dei tre anni più bollenti dal 1850 con 1,2 °C sopra la media preindustriale malgrado l’effetto raffreddante della “Niña”, inoltre caldo record da 38 °C nell’Artico e 54,4 °C nella Valle della Morte, il maggior numero annuo di tempeste tropicali atlantiche (30), nuovi massimi nelle concentrazioni di gas serra e dei livelli marini, 50 milioni di persone colpite da eventi estremi i cui effetti sono stati affrontati con ancor più difficoltà per colpa del Covid. Il presidente Biden ha ravvivato l’attenzione sull’urgenza climatica convocando i leader mondiali al Summit virtuale del 22-23 aprile in occasione della Giornata della Terra, da cui sono scaturiti ulteriori impegni di riduzione delle emissioni tra cui il loro dimezzamento al 2030 proprio da parte degli Usa, quando peraltro era appena giunta notizia dell’accordo Ue sulla neutralità climatica al 2050 e dell’impegno del Regno Unito a un taglio del 78% al 2035, l’obiettivo più ambizioso al mondo. La volontà sembra corale, vedremo se dalle parole si passerà ai fatti.

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