La battaglia per l’archeologia (e un ministro che sapeva cosa faceva)

 

Articolo 9 del 31.1.2016.

L’ultimo stadio del razzo del Governo Renzi contro l’articolo 9 della Costituzione ha avuto finalmente l’effetto di far insorgere il popolo del patrimonio culturale.

Sit in sotto il Collegio Romano a cui partecipano accademici dei Lincei, assemblee nei musei, appelli preoccupatissimi della comunità nazionale dell’archeologia, dure lettere dei dirigenti interni del Mibact e del comitato tecnico scientifico dello stesso Ministero, articoli di giornale ampi e ben informati: ora Dario Franceschini e la sua ‘deforma’ del governo del patrimonio sono sul banco degli accusati.

Meglio tardi che mai, si dirà: dopo lo Sblocca Italia con suo assalto al territorio, l’asservimento dei musei autonomi al potere discrezionale del ministro, la Legge Madia col silenzio assenso e la letale sottomissione delle soprintendenze ai prefetti.

Un vaso di veleni, stracolmo: e ora l’ultima goccia, la soppressione delle soprintendenze archeologiche con la relativa Direzione generale.

Venuta di notte, come un ladro: con una normetta nascosta nella legge di stabilità (l’avevo svelata su Repubblica il 21 dicembre).

E con questa goccia, il vaso trabocca.

Dell’inaffondabile, spregiudicato democristiano Dario Franceschini tutto si può pensare tranne che non sia sveglio.

E dunque non passerà molto tempo prima che si renda conto che questa volta ha tirato troppo la corda.

Avrà il coraggio di dire: «Scusate, questa volta mi sono sbagliato», e di ritirare coerentemente il suo decreto?

Sarebbe una bella pagina istituzionale.

Potrebbe andare in televisione, magari da Fazio, e dire, per esempio:

«Una soprintendenza all’arte o all’antichità non costituisce un ufficio amministrativo qualsiasi, ma ha una giurisdizione di merito, in cui la valutazione personale, la preparazione culturale singola, la conoscenza tecnica specifica hanno la massima importanza. Tale importanza, una volta ammessa (né potrebbe essere altrimenti) delimita, per necessità, delle sfere di competenza di specializzazione, che esigono d’essere riconosciute in una corrispondente divisione amministrativa. Soprintendenti, direttori, ispettori sono funzionari ammirevoli (e mi piace ripetere loro pubblicamente questa lode): ma perché l’azione che svolgono sia effettivamente proficua, deve potere intensificarsi nel campo delle conoscenze specifiche, essendo la loro sfera d’azione vastissima e mai conclusa, neanche a scavo ultimato o a restauro compiuto.

Occorre, quindi, che l’archeologo faccia l’archeologo, l’architetto risarcisca l’architettura lo storico dell’arte si prodighi per statue, tavole, tele, affreschi. Non, badate, per stabilire in questo campo una drastica specializzazione, da cui, non concependo compartimenti stagni nello spirito, io aborro. Ma altra cosa è l’informazione culturale, altra l’azione, nella quale ognuno deve praticamente attuare quel che fa e sapere quel che fa. Possedere, insomma, un corredo di cognizioni tecniche le quali un uomo solo non può ormai abbracciare che per settori: altrimenti non è un tecnico, ma un dilettante».

Così rispose, nel 1939, il ministro a chi gli chiedeva perché avesse diviso le soprintendenze secondo competenze tecniche specifiche: cioè esattamente il contrario di quello che fa la ‘deforma’ Franceschini, che ci fa arretrare invece che avanzare.

Quel ministro era Giuseppe Bottai, il presidente del Consiglio era Benito Mussolini: dovere, alla fine, ammettere che per il patrimonio culturale hanno fatto meglio loro di Franceschini e Renzi sarebbe davvero imbarazzante.

 

(Articolo di Tomaso Montanari pubblicato con questo titolo il 31 gennaio 2016 sul blog “Articolo 9” del sito “la Repubblica”)

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