Caccia, l’abrogazione dell’art. 842 del codice civile non è più rinviabile

 

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Le questioni sul tavolo sono note.

Da un lato l’indiscutibile “emergenza cinghiali”, che tratteggia l’incapacità innanzitutto normativa di gestione faunistico-venatoria.

Dall’altro l’inesistenza di un qualsiasi valore economico della fauna selvatica.

D’altro lato ancora, l’espressione esclusivamente ludica della caccia.

Nel mezzo l’agonia del mondo agricolo, che deve accettare sui propri fondi il divertimento dei cacciatori e il danno della fauna selvatica.

Si potrebbe aggiungere a tutto ciò il fallimento dei centri d’interesse deputati alla gestione della caccia: gli Ambiti territoriali di caccia, lottizzati dalle associazioni venatorie, in grado unicamente di sperperare denaro pubblico per gli inutili “lanci” di selvaggina; le Regioni, sovente incapaci di affrontare con competenza le problematiche più importanti e preda degli interessi di lobby delle associazioni venatorie che percolano per il tramite della componente politica e non solo.

Per fortuna sono scomparse le province.

Sullo sfondo vale la pena ripetere che, con poche eccezioni (prevalentemente annidate sull’arco alpino, in quanto ereditarie di altri ordinamenti giuridici), il nostro Paese, a differenza del resto d’Europa, è privo di una cultura venatoria in grado di dichiararsi come tale.

Ne è un’espressione il non-valore della fauna selvatica, fino a qualche tempo addietro res nullius, come lo sono in punto di diritto le cose abbandonate dai proprietari.

Sempre parlando di cinghiali, la regola del carniere teorico rende evidente lo scompenso tra i facili ricchi bottini annuali e il danno economico all’economia agricola o alla circolazione stradale.

Mentre molta caccia alla migratoria è di fatto un tiro a volo su bersagli vivi, giacché diversi animali non vengono recuperati.

E, sempre per la stessa ragione, il bracconiere, ove sorpreso (cosa poco frequente) avrà solo tolto la vita a “povere bestie” e non a beni che hanno anche un valore economico.

Per giunta la fattispecie sanzionatoria è troppo generica rispetto alle condotte ipotizzabili e la pena è irrisoria e oblabile, e per tale ragione non foriera di conseguenze quanto al successivo continuo legittimo esercizio venatorio.

Manca persino il valore “alimentare” della fauna selvatica abbattuta, ricca sovente di importanti principi nutritivi, ancorché validamente scevra da antibiotici, ormoni e quant’altro.

Nel resto d’Europa, la selvaggina possiede un notevole pregio gastronomico.

Tutto ciò si traduce, in Italia, salvo luoghi virtuosi, con un commercio “in nero” di carcasse di animali (a volte vere e proprie carogne) prive di qualsiasi controllo sanitario.

Questo disarmante quadro ruota attorno ad un fulcro pericolosamente instabile e ormai anacronistico, relitto di una caccia social-popolare tipicamente inquadrabile nel periodo di genesi del codice civile del 1942: si tratta dell’art. 842 c.c. che scorpora il diritto di caccia dalla proprietà del fondo e anzi, soggioga il fondo rustico altrui all’accesso di chiunque sia in possesso di una licenza di caccia per esercitarvi l’attività venatoria.

Ciò è tanto più efferato al sol pensare che all’epoca la selvaggina valeva come oggi i beni di cui il proprietario si è disfatto e che la caccia era annoverata a tutti gli effetti come uno sport.

Erano gli anni in cui una parte di fauna selvatica era considerata “nociva” (il lupo, la volpe, la faina, la puzzola, la lontra, il gatto selvatico, le aquile, i nibbi, l’astore, lo sparviero, il gufo reale e altri) e quindi da eliminare, anche con il ricorso sistematico a bocconi conditi di stricnina, sostanza che veniva legalmente distribuita ai cacciatori da parte dei Comitati provinciali per la caccia (i predecessori degli Ambiti).

Erano anche gli anni in cui per abbattere più in fretta un gran numero di anatidi era possibile installare su barche cannoncini caricati con ferraglia d’ogni tipo.

Tutto ciò accadeva per mano del legislatore italiano nel mentre, nel resto dei paesi d’Europa, si raffinavano le esperienze secolari di gestione della fauna selvatica.

La situazione attuale è erede diretta e legittima di questa impostazione ed è in tutto contraria alle vigenti prescrizioni dell’Unione Europea e ai dettami delle normative internazionali pattizie da cui non si può prescindere.

Per uscire dall’illegalità la caccia italiana deve trasformarsi da predazione assai poco controllata a prelievo sostenibile, abbandonando la totale componente ludica per passare a quella gestionale faunistico-venatoria.

Dal carniere teorico occorre traslare al prelievo quali-quantitativo.

Per far questo occorre recuperare il valore anche economico della fauna selvatica ed è indispensabile ripristinare una corretta interfaccia con il mondo agricolo, di fatto proprietario degli habitat della selvaggina.

La miglior sopravvivenza della fauna selvatica del resto passa per la cura degli habitat naturali e, dunque, per il corretto svolgimento delle attività antropiche agro-silvo-pastorali più confacenti alla riproduzione e alla sosta della selvaggina stessa.

Il passaggio più immediato per compiere quest’operazione è la semplice e subitanea abrogazione dell’art. 842 del codice civile, mantenendo ferma la proprietà della fauna selvatica in capo allo Stato.

Al suo posto è assai agevole, con pochi tratti di penna, costruire un sistema analogo a quello austriaco, forse tra i più semplici nel rapporto tra fauna selvatica e titolarità del diritto di caccia.

In sintesi, la gestione faunistico-venatoria in Austria è molto elementare: la caccia è organizzata in distretti (anzi, in “unità di gestione faunistica”) della dimensione media di 700 ettari, dipartendo da un minimo consentito di 115 ettari.

Il diritto di caccia è dipendente dalla proprietà del fondo.

Così, il proprietario di un fondo della dimensione minima di 115 ettari, se cacciatore, può condurre in proprio l’attività venatoria, oppure può vendere in parte o in tutto gli abbattimenti che gli sono consentiti, oppure può decidere di affittare l’intero o parte del proprio fondo ai fini dell’esercizio del diritto di caccia a cacciatori terzi.

I proprietari di fondi dalla superficie inferiore alla dimensione minima conservano il diritto di caccia ma non possono farne un uso individuale.

Devono, per ciò, consorziarsi con altri proprietari di piccoli fondi e concedere in affitto l’intera superficie con il connesso diritto di caccia, oppure devono consorziarsi e concedere in affitto la superficie con un qualsiasi distretto di caccia confinante che abbia la dimensione minima prevista per l’esercizio venatorio.

Per ogni distretto di caccia deve esistere almeno un qualificato guardiacaccia con specifica formazione e responsabilità pubblica per la prevenzione di ogni illecito venatorio.

Alcuni di questi sono cacciatori professionisti-guardiacaccia, stipendiati dagli affittuari del diritto di caccia o dai proprietari fondiari che l’esercitano in proprio.

In questo modo i proprietari terrieri sono responsabilizzati alla gestione venatoria diventando attori e protagonisti della prevenzione dei danni alle attività agro-silvo pastorale.

Nel mentre, la caccia diviene parte della redditività fondiaria.

Ovviamente la partecipazione collettiva di ogni cacciatore, anche in quanto economicamente possibile, è assicurata dai consorzi di caccia in forza della dimensione minima stabilita e dalla quantità di selvaggina assicurata.

Inoltre, il possesso della licenza di caccia (dal costo variabile da € 50 ad € 100 a seconda del land di appartenenza) dà diritto all’esercizio della caccia almeno in un determinato distretto (normalmente quello di residenza).

Il prelievo della fauna selvatica si esercita per mezzo di piani di abbattimento assentiti dagli uffici pubblici preposti secondo gli obiettivi della conservazione faunistica e della biodiversità, dell’uso sostenibile del prelievo venatorio e dalla prevenzione/limitazione dei danni alle attività agro-silvo-pastorali.

Un sistema in equilibrio: certamente non il migliore in assoluto, ma senz’altro da prendere in considerazione proprio in quanto di facile attuazione per mezzo dell’abrogazione dell’art. 842 del codice civile.

Soltanto quali punti fermi conseguenti a tale abrogazione normativa, andrebbe stabilito che ogni cacciatore ha comunque diritto di avere accesso almeno ad un distretto di caccia, normalmente coincidente con la residenza venatoria.

Inoltre, può essere mantenuto intonso che per escludere il proprio fondo dall’esercizio venatorio (proprio o da parte di terzi locatari) è necessario recintarlo, secondo quanto previsto per i fondi chiusi dall’art. 15 l. 157/1992.

Ancora, è necessario prevedere la costituzione obbligatoria di consorzi di gestione, fra i proprietari o pubblici dei fondi, almeno sino al raggiungimento di unità territoriali pari a 2.000-5.000.

Se solo si pensa che tale dimensione è quella ottimale per la gestione, ad esempio, del capriolo, in mancanza di una sapienza pur pragmatica di gestione venatoria come in Austria, non v’è chi non vede come appare opportuno garantire una indispensabile uniformità gestionale quantomeno rapportata a tali dimensioni.

Ovviamente, le unità territoriali di gestione comprendono più distretti venatori.

La forma consortile, in questo senso, appare la migliore al fine di garantire il coinvolgimento corretto della parte pubblica e di quella privata, dovendosi tener da conto, molto spesso una frammentazione quasi microscopica della piccola proprietà terriera.

Peraltro, la gestione consortile potrà essere estesa a quei frutti naturali dei fondi (funghi, tartufi, asparagi, ecc.) per cui esistono forme più o meno libere di raccolta che sarebbe opportuno disciplinare diversamente (in Austria, in ragione dell’inesistenza di proprietà demaniali, anche la raccolta dei funghi o degli altri frutti naturali del fondo è possibile solo nel contemporaneo possesso della licenza dell’autorità e nella non opposizione del proprietario del fondo).

Infine, quale regola da valersi per ogni elemento territoriale, ancorché non soggetto a prelievo venatorio (oasi, fondi chiusi, aree periurbane, industriali o destinate alle infrastrutture, verde pubblico o impianti sportivi, aeroporti e zone militari, riserve regionali e statali, ecc.), va prevista come obbligatoria la redazione di piani faunistici.

I piani di gestione dei distretti (così come i piani faunistici) sono predisposti dai proprietari/consorzi e sono approvati da autorità tecniche nazionali, meglio se articolate su macroregioni (più confacenti alle diverse realtà territoriali e faunistico-venatorie d’Italia).

 

(Articolo di Giacomo Nicolucci, pubblicato con questo titolo il 16 settembre 2016 sul sito online “greenreport.it”)

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