Ricordando Calamandrei. Perchè dire No al Referendum – Giuseppe Ferraro

 

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Ogni comunità ha il suo mito di fondazione.

La comunità si fonda su un racconto.

Ogni società si costituisce invece sulla Carta, ha il suo codice.

Il racconto della comunità non è scritto, è orale, passa di voce in voce, esprime la vocazione del suo territorio, corre lungo una tradizione di valori e costumi che cambiano con il progressivo sviluppo della società che ne allarga i confini ad altre comunità e le modifica.

La società ha le sue leggi, le proprie regole normative, che nella pratica dello sviluppo delle sue relazioni si dilatano in ragioni di normalità, lontane dalla norma, seguendo interessi, mercati, mode e innovazioni. La comunità ha il suo luogo, il proprio territorio, il suo abitare, con nostalgie, desideri, passioni, migrazioni, ritorni, conflitti di principi.

La società non ha luogo, ha mercato, è virtuale, vi confluiscono suggestioni, solitudini, interessi, occasioni.

La Costituzione di uno Stato non è un codice, perché chiamata a soddisfare l’una e l’altra – comunità e società – indicando fini, confini e sviluppo della ricchezza della Nazione, come recitava il titolo di Adam Smith, nella partecipazione e distribuzione, avendo cura del bene comune.

Su questo equilibrio smarrito e ritrovato, cercato e perduto, si svolge l’azione politica di governo di un Paese.

Le questioni etiche intervengono a richiamare il piano di giustizia sociale che la politica deve assicurare.

Così comunità e società, etica e politica, devono potersi riferire l’una all’altra, riguardo ai fini e all’organizzazione per raggiungerli.

Ogni volta che la società prevarica sulla comunità e viceversa, si danno sussulti tali che impongono richiami, costituzioni e riforme strutturali di organizzazione dello Stato.

È questo il cruccio della politica degli Stati Moderni che è giunto a un punto del tutto nuovo di conflitto e di ricerca di nuove forme di governo, di cui l’«Unione» rappresenta l’ultima chiave di volta.

Bisogna intenderla come Unione Sociale di Comunità Autonome differenti, perché non scada nella misura unica dell’Unità.

Su questa via c’è ancora tanta confusione o una tale semplificazione che rende più evidenti le urgenze e meno chiare le esigenze richiamate a soddisfarle.

È sull’equilibrio di Autonomie e Unione che inciampa la Riforma posta a referendum in Italia.

La sua esigenza rientra nella prospettiva più ampia dell’Unione Europea e delle Autonomie della Comunità regionali.

La Riforma è direttamente una prova di giudizio sull’Unione Europea, non per un’uscita nazionalista, nemmeno però per un’adesione di sottomissione.

I Principi della Costituzione Italiana sono la registrazione articolata del racconto della ritrovata comunità nazionale fondato sulla Resistenza.

Quei Principi riflettono le idealità delle forze popolari di Liberazione contro la tirannia e l’occupazione nazifascista.

La Costituzione Italiana è antifascista, sostiene come principio la libertà di scelta popolare e individuale, di razza e confessione, di autonomia e di amministrazione.

Il richiamo alla Sovranità Popolare, alla Democrazia, al Lavoro sono espliciti riferimenti delle Forze Politiche che hanno sostenuto quella lotta.

Il Principio della “Repubblica fondata sul lavoro” va letto come “Repubblica fondata dai Lavoratori”, con chiaro riferimento di classe e del partito politico che li rappresentava.

Quella rappresentanza di Partiti Politici non c’è più.

Quei Principi vacillano.

Fino al rischio di diventare astratti dal vissuto e perciò separati dalla pratica applicazione, aprendo uno scarto tra normalità e moralità.

Un tale scarto è l’effetto continuo del disagio che viene dal distacco tra Comunità e Società.

La Costituzione Italiana resta tanto più lontana dalla sua applicazione quanto più se ne esalta la “bellezza” e la “prosa”, come accade con libri che la rifondano, non più sulla Resistenza, ma sulla storia dell’arte più antica.

La sua lettura diventa puramente estetica, astratta.

Abbiamo la Costituzione più bella, nella parte che riguarda i suoi Principi.

Abbiamo invece la Costituzione più sofferta, nella parte che riguarda i “Titoli” a confermare ancora di più lo scarto tra comunità e società per un governo che cerca l’ammodernamento inseguendo un modello di “crescita” che non tiene conto delle comunità, né della bellezza che dovrebbe raccoglierle.

Continuiamo così a riscrivere la parte dei Titoli della Costituzione, mentre la memoria di fondazione della Resistenza sbiadisce fino a diventare estetica e astratta quando si pensa al “lavoro” precario, alla guerra “ripudiata” e operata, alle carceri “rieducative” e “disumane”, al Diritto allo Studio affermato e inadeguato, alle Autonomie enunciate e ritirate, alla Sovranità Popolare ignorata dal centralismo democratico.

La Società che dovrebbe “rispecchiarsi” nella Democrazia come espressione della Comunità, se ne allontana, aggirando la partecipazione popolare e sovrana.

Il punto è che le comunità sono tante, per cui la società dovrebbe essere unitaria.

Anche la Comunità Europea è nata sui principi di contrasto alla tirannia e al nazionalismo con il richiamo esplicito del Manifesto di Ventotene.

Non è senza motivo politico il passaggio dalla «Comunità Europa» all’«Unione Europea» che continua a essere il tentativo, meglio il cammino, appena iniziato, e contrastato, verso un’organizzazione sociale delle differenti comunità, che restano ancora continuamente “sacrificate” o “cancellate” dalla supremazia della più forte “nazione finanziaria”, che ha reso l’economia separata dalla politica, posta in stato di minorità dalla “società delle banche”.

L’ordine che la Libertà reclama dalla politica è di essere essa stessa l’«arte della libertà», la sua messa in arte, garantendo la partecipazione sociale delle comunità per una società in comune.

La politica deve poter ispirarsi alla bellezza ed essere perciò arte della libertà coniugando differenze e unione.

C’è da pensare a riformulare con forza gli stessi Principi della Costituzione di Resistenza a Prevaricazioni e Imposizioni di modelli e restrizioni lontane dalla realtà del Paese.

C’è da pensare a riformulare quei Principi in ragione dei valori fondativi dell’Unione, della Solidarietà e della Partecipazione che riflettano il passaggio a una fondazione Sociale di Comunità, finora non rappresenta dall’Unità Nazionale, diversamente sofferta tra Nord e Sud del Paese.

L’Italia ha piena responsabilità di ripensare la propria Costituzione per una comunità sociale in una società comune, che rifletta le stesse esigenze europee, spingendo l’Europa verso l’Unione Sociale delle Comunità.

La Riforma Costituzionale, riguardante i Titoli IV e V, segnala questa necessità, ma in una forma di contrasto con i Principi Costituzionali e di dichiarata sottomissione alle direttive di Bruxelles, non partecipate, calate dall’alto e approssimative, mancando così un’occasione che non si può rimandare.

Gli Articoli di Riforma posti a Referendum ripetono quello che è già accaduto per la Scuola, per le Università, per il Lavoro, lasciandoci a “subire” la registrazione di modelli del tutto distanti dalle esigenze reali, che stravolgono cultura e arti, conoscenze e relazioni, costrette a rispettare parametri e misure, per statistiche estranee.

La Riforma Costituzionale assume così le direttive di altri sistemi importati o imitati in modo approssimativo, come quello austriaco di cui si conosce solo l’inefficacia.

La Riforma va fatta, ma non così, non questa.

C’è bisogno di un lavoro di scrittura che non si separi, ma si unisca ancora di più all’Europa come comunità sociale del continente mediterraneo.

Dovrà essere un lavoro di scrittura che unisca, come prima esigenza, il Paese al suo interno con una partecipazione diretta di chi lo abita e vive.

Siamo alla fine dello Stato Nazione.

La riduzione di Sovranità fa di ogni Paese uno Stato Regione dell’Unione Europea.

La fine delle classi sociali e dei partiti che li rappresentavano fa dei Territori i nuovi soggetti sociali del Paese.

È urgente pensare a un sistema complesso, che il federalismo, rivendicato negli ultimi anni, non può esprimere e soddisfare.

La complessità che si prospetta con le migrazioni interne ed esterne, con la commistione di culture e linguaggi, impone alla Politica esigenze finora sconosciute che non si possono risolvere con flussi finanziari che accontentano questa o quella misura d’emergenza, ma che in realtà segnano più marcatamente il potere economico centralizzato separato dalla politica come servizio pubblico di un Paese.

Una Comunità diventa Soggetto Sociale quando assume la propria Autonomia.

La prospettiva che impegna la Riforma del Titolo V della Costituzione rimanda direttamente alla funzione degli stessi Partiti Politici e perciò all’azione politica del Governo.

Quei Partiti rappresentanti di soggetti sociali di classe sono adesso rappresentanti d’interessi di società finanziarie.

L’esigenza che riafferma i Principi di Autonomia della Costituzione vanno in direzione opposta, verso l’organizzazione di Partiti Politici che, rispondendo ai principi di Autonomia, siano espressione diretta dei Territori, Partiti delle Città, delle comunità locali con la responsabilità di un’Unione Sociale che li esprima a livello Paese.

Il contributo da offrire non può essere sradicato da dove si parla e si vive.

Qui, ora, da una Città Metropolitana, Napoli, che sta vivendo in questi anni un’esperienza politica che esprime una prospettiva del tutto nuova intesa a sostenere il “Pubblico” come manifestazione di legami sociali, perché il bene comune sia pubblico, in una democrazia senza confini, corale delle proprie molteplici vocazioni.

Al contrario di quanto avviene in una “democrazia a consenso informato”, dove si è informati di ciò che si è deciso dall’alto e altrove, dove finanche le promesse di aumenti in busta paga ad approvazione delle Riforma sanno, se non di ricatto, di condizionamento.

Napoli è una comunità, il suo mito è la sirena.

Non ha una costituzione, somiglia poco a una società.

Napoli ha il suo racconto, la sua narrazione, la sua storia, la sua popolazione, la sua lingua.

Tutti i paesi dell’Italia del Meridione sono così.

Possiamo capire tante più cose mettendo in più chiara luce il rapporto tra autonomie regionali e sovranità sulle quali s’impiglia il costante tentativo di cambiamento della Costituzione Nazionale.

L’indeciso è tra comunità e società che si riflette nel complicato rimando di movimenti e rappresentanza istituzionale.

Bisogna insistere, la Comunità è l’abitare e vivere i territori, esprimerne la vocazione e l’autonomia di governo come propria soggettività.

Non sarà una comunità etnica o di nazione, di confessione e rigide tradizioni, ma la comunità dell’aver cura, quella dell’abitare e vivere.

Conviene guardare indietro quando si avanza nella storia, come faceva pensare Walter Benjamin “leggendo” a quel modo il quadro di Paul Klee, che gli faceva riflettere a come l’angelo del dipinto procedeva in avanti avendo la testa girata all’indietro, rivolto – possiamo affermare – a chi guarda la sua immagine stando davanti al quadro.

Il passato rivolto al presente siamo dunque noi stessi che proviamo a scrivere il futuro avendo di fronte il quadro dell’esistente, che reclama di riguardaci.

Conviene ripensare, quasi per un riflesso di nomi, a Benjamin Constant quando pronunciò il suo discorso sulla libertà degli Antichi e quella dei Moderni mettendo in risalto le irriducibili differenze tra comunità e società nella costituzione degli stati nazionali.

Lo Stato Nazione è ibrido di due esigenze sulle quali confluiscono la storia e la memoria, il progresso e i costumi differenti, le comunità e le società, le appartenenze e le culture.

Il racconto nazionale nostrano è stato il Risorgimento, con l’epopea garibaldina che ha “nascosto” ogni altro calcolo e operazione di politica economica straniera sul Mediterraneo travolgendo l’intero Paese in scelte unitarie diversamente, ancora, sofferte.

Il Risorgimento succede al Rinascimento.

L’Italia dei Comuni e dei Regni ebbe più forte identità e fu più “unita” di quanto non sia “ridotta” a una sola Unità.

Per l’Italia il rapporto tra Comunità e Società è rimasto come irrisolto e si trascina ancora oggi a fronte delle esigenze di autonomie regionali, che dichiaratamente sono espressione di Comunità.

Un processo che altrove è avvenuto attraverso una forte rappresentanza istituzionale che ha garantito uno sviluppo economico, sociale e culturale omogeneo.

Cosa che in Italia non è avvenuto, stando anche la forte soggettività delle Comunità e le differenti e ricche vocazioni regionali.

Sono queste considerazioni necessarie.

Per l’Italia è rimasto irrisolto il rapporto politico tra Comunità e Società, in un rimando di degenerazioni, che fa sentire nelle continue riletture del Titolo V il tarlo della Costituzione.

Benjamin Constant quel giorno, nel suo discorso sulla Libertà degli Antichi e dei Moderni, mise in risalto come quella degli Antichi esprimeva il valore di democrazia diretta, dove il singolo individuo era chiamato a dare il proprio libero contributo alla Comunità cittadina.

Hannah Arendt ha fatto capire ancora meglio che per il mondo della Polis greca la libertà era espressione della partecipazione alla vita politica e riservata come agli uomini che non avessero necessità di provvedere all’economia di sostentamento.

La politica era perciò autonoma e il suo piano di applicazione era la Libertà.

Chiaramente l’aspetto etico era prevalente su quello economico garantito da un sistema di accumulazione e proprietà prepotente e schiavista.

Benjamin Constant face osservare come sarebbe stato – ed è – impensabile riproporre quella partecipazione diretta in un mondo dominato da esigenze economiche “private” che salgano sulla scena pubblica della politica.

In quel tempo non a caso nasceva con Adam Smith l’Economia Politica, oggi scomparsa, perché altra è la posta in gioco tra pubblico e privato.

Se prima di allora il privato era separato dal politico, in seguito il privato entrò nell’esigenza di una costituzione sociale nazionale.

L’elemento di mediazione, insisteva Benjamin Constant, era la funzione di Rappresentanza dei Partiti Politici, diretta espressione di Soggetti d’interessi sociali.

Era la configurazione degli Stati Nazionali.

Ora siamo alla fine di quel ciclo storico che fu segnato dal rapporto tra Stato e Società.

L’economia politica che nasceva in quegli anni interveniva a tenere insieme l’uno e l’altra nella espressione dello “stato sociale”.

Anche questa espressione (Stato Sociale) è arrivata alla sua derubricazione storica.

Se pensiamo alla Costituzione Italiana, come alle altre Europee, comprendiamo come sia questo equilibrio tra Stato e Società a essere elemento di contrasto nei continui squilibri storici, che hanno registrato, come notava Chomsky, ora l’affermazione della Società con il Socialismo ora l’affermazione dello Stato con il Nazionalismo.

A riflettere sullo stato presente delle cose, i Partiti hanno perso il valore di rappresentanza nel momento in cui si sono disgregati i soggetti sociali di classe.

Se la Costituzione fu l’armonizzazione tra rappresentanza dei Lavoratori e rappresentanti Popolari per una Repubblica fondata sul lavoro e sulla sovranità popolare opposta alla tirannia nazifascista, c’è da pensare a quali siano ora le prospettive di equilibrio cui occorre riferirsi.

La nostra tesi è che le Autonomie siano i nuovi soggetti sociali, quando riflettono non identità etnica, ma rispondono alle esigenze di chi abita e vive città paesi e regioni, nelle vocazioni e nei bisogni tanto più qualificati, quanto più alta è l’educazione del desiderio che li spinge a viverli.

C’è bisogno di ripensare al rapporto tra Comunità e Società in una composizione molteplice che si configuri come Unione fondata sui valori della solidarietà e della partecipazione per rendere l’intero Paese attento a uno sviluppo coerente che non separi, non divida, non marchi confini.

Non è difficile capire che il rapporto tra Comunità e Società si esprime in termini di valore come rapporto tra etica ed economia, di cui la politica è lo spazio pubblico di mediazione.

Fatti salvi i Principi della prima parte della Costituzione quello che continua a essere “manomesso” e “riscritto” è la parte dei Titoli che riguardano il rapporto tra Stato e Società, che si esprime nelle modifiche nel rapporto tra Governativo e Amministrativo.

Nella proposta di Riforma questo rapporto appare del tutto sbilanciato aprendo uno scarto che ripete la storia dell’Unità fin qui diversamente sofferta dai governi regionali sempre meno tali.

La Riforma del Senato marca con ancora più forza questo scarto che si esprime come prospettiva presidenzialista con conseguente perdita di soggettività delle Comunità Regionali.

Che le Regioni siano espressione di Comunità è un dato più marcato per l’Italia del Meridione, ma che è tale in tutte le diverse espressioni come da sempre è per la Storia del Paese.

Ignorarlo significa riprodurre gli stessi guasti e disagi evidenti in un’idea dell’Europa che è sempre meno Unione e sempre più Unità a misura di uno Stato Nazionale egemone sugli altri chiamati ad adeguarsi alla sua unità di misura.

L’impegno di Riforma della Costituzione ci vede impegnati su questo piano generale.

Non possiamo evitarlo né fingendo di non capire né proclamando scissionismi, separatismi e uscite ridicole.

Titolo IV e Titolo V della Costituzione sono in stretta connessione, riguardando il primo la rappresentanza delle Regioni, mentre il secondo riguarda i “poteri” che gli Enti Locali sono chiamati a svolgere.

La Riforma così com’è predisposta elimina, di fatto, il Senato dalla funzione politica governativa.

Lo riduce ai rappresentati Consiglieri degli Enti Locali, non eletti proprio dalla popolazione.

Sono Consiglieri incaricati di un mandato aggiuntivo, chiamati a rispondere degli atti amministrativi degli Enti di cui sono rappresentanti.

Il punto di volta è che il Senato così composto è fatto da “impiegati” che devono rispondere dei “compiti” assegnati dall’Unione Europa circa l’utilizzo dei fondi sociali per progetti passati a bando per «Misure» calate esse stesse dall’alto.

A entrare nello specifico degli articoli si resta colpiti dal conseguente esautoramento della Camera dei Senatori.

Anche nei numeri, la Camera mantiene quello eccessivo per i deputati, 640, e riduce quello dei Senatori a 100.

Non certo per questione di risparmio economico, ma per ossequio alle direttive europee che vogliono una sola Camera e un controllo minuzioso dei fondi stanziati per le Regioni.

Quasi un camminare sui vetri è poi la stesura dell’articolo 72 del Titolo V, un elenco interminabile, di là del dato dell’essere scritto male o bene (ed è scritto male), semplicemente per far capire e non capire che viene tolto agli Enti Locali ogni pretesa possibile di autonomia, dai tributi ai poteri deliberativi sulle questione di interesse specifico delle esigenze locali, nei settori che riguardano la società, ovvero tutto il sistema di servizi e relazioni che incidono sui legami sociali.

Con la Riforma di Legge il Senato non può interferire sulle delibere della Camera, se non richiedendo spiegazioni che lasciano il tempo che trovano per decisioni già prese e definitive.

Siamo così all’esposizione della “democrazia a consenso informato”.

Siamo informati di quanto è stato deciso e dobbiamo risponderne adeguandoci alle sue misure, informati.

Cogliere tale funzione del Senato come registrazione dei compiti assegnati dall’Unione Europea è il punto di volta più importante, perché di fatto registra come lo Stato sia diventato Regione Europea con i suoi amministratori locali, ovvero “impiegati” del servizio locale.

Tutto si può racchiudere nell’Abrogazione dell’Art. 58 del Titolo IV, che rivela insieme come il Senato non è eletto dal Popolo, non ha funzione legislativa, non rappresenta la Nazione che spetta alla Camera dei Deputati (Art. 55).

La Riforma così presentata può essere solo rifiutata come premessa a una consultazione che coinvolga l’intero Paese in un movimento di partecipazione capace di raccogliere esigenze, indicazioni, correzioni, scritture, e tutto quanto significhi una riappropriazione della politica come momento di partecipazione comune.

La Riforma si deve fare, quella proposta si deve bocciare.

A dare le indicazioni dovrà essere un movimento di partecipazione reale delle persone che abitano e vivono il Paese, le donne, gli uomini, i più giovani, e non esagero a reclamare anche bambini e di certo ancora a partecipare dovrebbero essere quanti vengono a vivere e abitare migranti per forza di necessità.

Allo Stato attuale la proposta di Riforma riflette uno Stato d’Unità (perché non è ancora come tale Unione) dell’Europea.

È una grande occasione parlare di Costituzione, bisogna che ci sia un tempo, un periodo in cui ognuno con le proprie attenzioni di studio e professione possa partecipare a un momento così importante, che mette insieme Comunità e Società per arrivare a una comunità sociale in una società comune.

Il NO al Referendum per questa Riforma, può aprire questo spazio di tempo che porti la discussione dal Parlamento alla “camera aperta delle piazze” e del movimento reale delle persone.

Ecco, di là dal girare intorno al “Sì” e “No” del referendum la questione che precede ogni altra è la configurazione dei partiti politici chiamati a esprimere un rapporto tra movimenti e istituzioni, perché i territori si facciano scuola della solidarietà.

La legalità è fatta di legami.

La libertà di un Paese si misura dalla qualità dei propri legami sociali.

Le Autonomie sono espressione di una tale Soggettività che non si riconosce in esclusiva sovrana, se non nella partecipazione diretta all’Unione.

La Città deve farsi Scuola perché si possa vantare come nella lezione inaugurale la democrazia.

Il Paese deve farsi Scuola.

La politica deve essere formativa e non dettare informazioni per decisioni già prese o per promesse di condizionamento di interessi di mercato.

La Società deve tornare a farsi comune, le Comunità devono tornare a essere sociali.

Questo rapporto di pluralità si dà nell’Unione, non ha un’unica unità di misura.

Non si possono fare parti uguali tra persone diseguali.

L’uguaglianza è lasciare alle differenze di esprimere la propria soggettività, autonomia, per la più alta solidarietà di cultura e ricchezza sociale, di conoscenza, di ricerca della felicità di tutti.

Tenere insieme felicità e benessere significa tenere insieme comunità e società.

Nell’espressione originaria di Aristotele fino a quella di Kant l’uno e l’altro fine sono inseparabili.

Da Aristotele a Kant si trova ricorrente nei testi di Etica, definita “scienza della politica”, quel doppio indissolubile principio.

Nell’Etica di Aristotele si legge che la propria felicità è ancora più tale quando è la felicità della comunità.

Nell’Etica di Kant si legge quel nesso per cui la realizzazione di sé non è separabile dalla felicità degli altri. La politica è la manutenzione di questo nesso.

È il bando continuo che essa deve porre a proprio impegno perché sia espressione di unione di comunità in una società comune.

Una comunità è Autonoma quando è in grado di amministrare una propria economia, quando è nelle condizioni di elaborare uno sviluppo economico delle proprie vocazioni territoriali, della forza di chi l’abita e vive, della partecipazione alla cultura della propria identità sociale, nel soddisfacimento dei propri bisogni seminando i propri desideri.

È il bisogno che semina il desiderio.

Il bisogno senza desiderio è elementare e sottomesso al potere di chi affamando propone consumo a proprio interesse.

Il desiderio senza bisogno che lo alimenti resta un sogno senza realtà.

È il sentimento che amministra la passione quando diventa volontà per il bisogno del proprio desiderio di vita.

Le Autonomie sono espressione della Soggettività di una Comunità avendo l’Unione come espressione sociale che ne “costituisce” l’organicità insieme ad altre.

L’Unione Europea è chiamata a esprimere una Società delle Comunità differenti che compongono.

L’unica “direttiva” che un Paese può accettare come Stato Regione dell’Unione Europea è quella di ricomporre al proprio interno l’Unione delle differenti Comunità che l’organizzano in un libero rimando che è politico proprio perché libero.

Conviene, alla fine delle considerazioni di merito, andare sull’uso comune della parola “Costituzione” perché se ne possa ritrovare il significato più intimo.

“Costituirsi” è consegnarsi alla Legge.

È un termine giudiziario.

Significa sottomettersi alle disposizioni di legge in merito a una propria azione.

Anche chi redige una Costituzione si costituisce, non però alle disposizioni di una legge, ma a ciò che precede la Legge che istruisce tutte le altre dentro il suo limite e dentro i suoi legami.

Anche una legge può perciò uscire dalla Costituzione.

L’incostituzionalità indica l’essere fuori del Principio fondativo della Legge.

C’è una dichiarazione della Legge, è in quella enunciazione “la Legge è uguale per tutti”.

Lo Stato medesimo può uscire dalla sua Costituzione, sospenderla o riformarla tenendosi però sempre all’interno dell’ordine della Legge alla quale si costituisce.

Resta la domanda, a chi ci si costituisce allora quando si scrive una Costituzione?

Piero Calamandrei sapeva che questa domanda sarebbe venuta.

La sua risposta richiama i luoghi: «Se volete andare in pellegrinaggio dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. 

Dovunque è morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione

A scorrere i Principi si comprende quanta sofferenza dovette esserci per un Paese che subiva la dittatura fascista, la mancanza di libertà personale, la sicurezza propria, del proprio domicilio, del proprio lavoro.

Si vede dietro quei Principi un Paese che subiva la più vessatoria prevaricazione del feudalismo straccione.

La dittatura era questo.

La Costituzione si racchiude in quel primo Principio che indica in sequenza Repubblica Democrazia Lavoro Sovranità Popolare e a seguire tutti gli altri punti coniugano la Libertà individuale e l’autonomia.

Libertà e autonomia, di cultura, religione, regione.

Quel “prima” della Legge è dunque il suo “Principio”.

Chi scrive la Costituzione si costituisce, si consegna, confessa quel Principio, che è un “prima” della Legge, anche come ciò che viene prima del suo inizio e della sua storia.

Riguarda la storia, gli eventi, il vissuto, il sofferto e sperato, riguarda una sensibilità, una cultura, una forma di libertà che richiama l’individuo, il singolo ai suoi diritti, alle garanzie delle sue scelte di vita.

Riguarda l’autonomia personale come l’autonomia dei territori nei quali abita e vive.

Piero Calamandrei lo espresse nella maniera più chiara e toccante in quel discorso tenuto ai giovani.

Quel discorso ha come titolo “Prima di tutto”.

Indica ciò che sta prima, il “Principio” non come ciò che si riduce ad un’enunciazione, ma che attraversa ogni altro articolo di principio della Costituzione, facendone non solo un testo da conservare, ma un programma di progetto da realizzare, ancora adesso.

Quel “Prima di tutto” si riferisce al «compito della Repubblica [di] rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese».

A leggere l’articolo 34 si comprende che la Costituzione è una scuola, una didattica della democrazia.

Bisogna apprenderla.

È formativa.

Porta la Politica al grado più alto della partecipazione.

Coniuga libertà e uguaglianza, mette insieme la forza dell’idea di un’intima utopia di questo Paese.

Il “Prima” che attraversa tutti i Principi della Costituzione è storico, riguarda la lotta della Resistenza al fascismo, parla di libertà personale e autonomia, non parla di autarchia e di liberismo.

Parla di una libertà, non come indipendenza, ma come interdipendenza, nessuno può fare a meno dell’altro, la libertà di uno è tale in rapporto alla libertà di tutti.

Calamandrei la chiama libertà come interdipendenza e fa pensare ancora all’”unione” solidale, fa pensare a Cattaneo, ma in forma sociale.

La Costituzione così com’è scritta è anche un programma di politiche sociali.

Chi scrive la Costituzione si costituisce in nome del popolo sovrano, non solo di chi ha parola adesso, ma anche nella voce che resta dentro di chi ha lottato per quel “Prima di tutto”.

A Calamandrei si deve anche il termine “desistenza”.

Lo spiega come il contrario della Resistenza.

Quella lotta non deve finire, si porta dentro, perché non è datata storicamente come lotta al fascismo, è viva e deve restare viva in ogni lotta contro quel “prima di tutto” della libertà e dell’uguaglianza, dei diritti sociali e della solidarietà.

“Desistenza” è il contrario.

È l’oblio delle ragioni e delle passioni di quella lotta.

Desistere è rimandare quel Principio a “causa” dell’emergenza e dell’urgenza della crisi economica che è espressione di dominio di un potere sempre più verticistico e pervasivo, che arriva sulla vita di ognuno e che comanda con la paura della mancanza di risorse e del debito sovrano, fino a servirsi del terrorismo come espressione di una paura insondabile che viene da fuori.

Parlare della Resistenza ancora è quasi sentire la voce della Costituzione, se la riformiamo siamo chiamati a dialogare con quelle voci dei morti, come ripetere Calamandrei.

Dobbiamo riprendere la Solennità, anche con il rischio della retorica.

Questa riforma non ha niente di Solenne, è una riforma delle ore d’ufficio di Bruxelles, delle ore di ufficio di una commissione di maggioranza.

La Costituzione ha bisogno di Solennità, perché vuole passione e ragioni che guardano al passato per ciò che si è sofferto e al futuro perciò che porti gioia.

Chi legge la Costituzione Italiana è preso da questo doppio sguardo.

Il presente, adesso, di chi legge è preso da quel prima storico che diventa principio d’inizio del futuro.

La Costituzione Italiana, bisogna affermarlo, è una Dichiarazione di Libertà ed è anche un Manifesto Politico per un programma di un nuovo Stato Sociale.

Si potrebbe presentare a ogni campagna elettorale, è un Manifesto Politico, riguarda la piena occupazione, il diritto allo studio, la libertà d’espressione, l’autonomia locale, la salute, le carceri … c’è tutto come vorremmo che fosse il Paese.

C’è un modello sociale ed un’economia politica che coniuga benessere e felicità, unione e solidarietà, libertà e interdipendenza.

È bella la Costituzione per questo, parla ancora di futuro ricordandoci da quale passato non dobbiamo tornare.

Quegli uomini che l’hanno redatta, quelli che l’hanno discussa articolo per articolo, mediando su ogni parola perché fosse chiara, semplice, comprensibile non per il giurista ma per chiunque leggesse, sono stati uomini che hanno creduto, tutti, nello Stato.

Quel Manifesto Politico, quella Dichiarazione di Libertà e Autonomia interdipendente, quel programma aveva un Partito che era lo Stato.

La Costituzione è il programma politico di uno Stato, che come partito, sia vicino ai suoi elettori, agli italiani, un rovesciamento pieno del fascismo, non più un dittatore, un padrone, ma la Sovranità Popolare.

È questo il Soggetto nominato dalla Costituzione, uno Stato della Sovranità Popolare.

Questo Stato, italiano, già da subito con la fine del governo Parri fu separato dalla Sovranità Popolare, fu vissuto come diversamente estraneo in ogni parte del Paese.

Fu, ed è vissuto, come uno Stato assente, come una politica corrotta.

Era il 1954, Calamandrei scriveva che «la maledizione che ha gravato nei secoli sul popolo italiano è stata proprio questa separazione, questa scissione tra popolo e Stato, per cui il popolo ha sentito lo Stato come una oppressione estranea, come una tirannia, come un nemico che stava al di fuori e al di sopra di lui: e da questa scissione sono nati tutti gli scetticismi e tutti i conformismi che costituiscono il pesante bagaglio della nostra storia politica. 

Da questo è originato anche il disprezzo della politica e dei politicanti che è stato sempre largamente diffuso sul nostro popolo, che si è aggravato durante il fascismo, e che anche oggi scredita nella considerazione di tanta brava gente le persone che si occupano di politica militante, e che identifica la politica con la transazione e con l’imbroglio

Nel 1956 Calamandrei scriveva come i deputati che sedevano in parlamento diventassero impiegati del proprio partito, per carriera, per “occupazione”, per “busta paga”, per fame.

Li abbiamo visti.

Li vediamo. Sono là.

La Costituzione è rimasta a quel “Prima” al suo inizio, ai suoi principi, la riforma attuale, messa a referendum, ne è la revoca definitiva.

Quello Stato Sociale della Sovranità Popolare viene ridotto a Stato Regionale privato della sovranità popolare.

L’abrogazione dell’articolo 58 che riguarda il suffragio universale per l’elezione del Senato ne è l’indicazione “prima”.

Quel che resta della Costituzione rimane il Manifesto di un Partito senza elettori, di uno Stato che non esprime un programma economico di solidarietà, non richiama la libertà interdipendente delle autonomie, lascia sulla Carta il rifiuto della guerra e il diritto allo studio e lo stato delle carceri.

La Costituzione è stata il partito senza Stato di don Milani, di Piero Calamandrei, di Danilo Dolci, di Aldo Capitini, di Pier Paolo Pasolini, di Peppino Impastato, di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e di tanti che hanno dato a questo Paese la sua storia più bella.

Nessuno di loro ha avuto un partito, perché lo Stato siamo Noi, è ognuno che ha come suo partito la sovranità popolare, il benessere sociale e la felicità di tutti.

Questo Referendum segna una data storica, un giro di pagina del libro del racconto di questo Paese che non ha avuto mai la possibilità di governarsi da solo, con un proprio Stato che non fosse di occupanti, di invasori, dittatori, impostori, dipendenti di altri governi e paesi, corrotto, sul filo della legalità e dell’illegalità, disorganizzata la prima e organizzata l’altra.

La Costituzione non va riformata, perché va attuata, per farlo occorre ripensare a quel suo “prima”, al fascismo alla guerra e al suo “principio” di Libertà.

Non è necessario riprendere il libro di storia, la guerra è adesso nei morti ammazzati per strada, nei corpi degli emigrati.

Non è necessario andare a leggere i libri di storia, la corruzione politica è qui, adesso, la dittatura finanziaria è presente, la sottomissione a scelte civili e stili di vita, l’omologazione, è presente.

È qui adesso che quella Libertà Interdipendente delle comunità può reclamare agio e partecipazione, solidarietà e vocazione, passione e gioia di stare insieme.

Gli stili di vita siano differenti, la scelta è il messaggio promozionale della tecnologia, l’informazione è disponibile ovunque, la partecipazione invece è solo per contatto a distanza.

La democrazia è a “consenso informato”, siamo informati di ciò che si decide com’è stato deciso senza poter intervenire, modificare, capire.

Senza partecipazione.

Le disposizioni del “nuovo Senato” sono su questa precisa linea.

Il Senato non potrà deliberare e decidere, potrà chiedere spiegazioni su scelte già prese dalla Camera dei Deputati, per un tempo limitato a giorni.

La Camera risponderà senza modificare le proprie decisioni.

Ciò renderà lo Stato più efficiente e l’iter deliberativo più veloce per decisioni immediate?

È lo Stato d’eccezione, quello senza sovranità popolare.

È lo stato del presidenzialismo, il governo del centralismo, la democrazia è finita.

L’Europa Nazione, come da qualche “vecchio” politologo si reclama, è sulla strada più antica e pericolosa dell’unità, già vissuta come distanza e sofferta per privazione.

C’è bisogno dell’Europa come Unione.

C’è bisogno dell’Unione Europea, non quella sovradeterminata dalla nazione finanziaria.

Nemmeno c’è bisogno dell’Europa a due o tre velocità, con una moneta frammentata di valore per i più ricchi e i meno ricchi dei suoi paesi, com’è nel disegno di vecchi economisti conservatori.

C’è bisogno dell’Europa come Unione delle Comunità.

L’Italia deve esprimere già al proprio interno, seguendo la dichiarazione della propria Costituzione una tale Unione di Comunità.

L’Unità è misura unica uguale per tutti. L’unione è espressione di uguaglianza nella molteplicità delle differenze che tanto più concorrono alla libertà di tutti quando sono autonome e interdipendenti.

È una prospettiva che deve coinvolgere il piano stesso della globalizzazione.

È complessa e necessaria. L’unione riguarda le comunità, non le etnie, riguarda i territori e chi li abita e vive. La comunità non è nazione.

L’Unione è la prospettiva, è la Costituzione dello Stato della Sovranità Popolare, è il nome di un Partito.

L’Unione è l’avvenire.

 

(Articolo di Giuseppe Ferraro, pubblicato con questo titolo il 16 settembre 2016 sul sito “Il NO per l’altyernativa”)

 

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