Referendum – Conoscere per votare: come cambia l’elezione del Presidente della Repubblica

 

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Il Titolo II della Parte II della Costituzione comprende gli articoli da 83 a 91 dedicati al Presidente della Repubblica.

Il vigente art. 83 è dedicato alla elezione del Presidente della Repubblica ed al 2° comma dispone che «All’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze. La Valle d’Aosta ha un solo delegato».

Si hanno così in tutto 58 delegati regionali.

Il disegno di legge costituzionale S 1429, presentato dal Presidente Renzi e dal Ministro Boschi, prevedeva una sola modifica riguardante l’elezione del Presidente della Repubblica, contenuta all’art. 17 (Modificazioni all’articolo 83 della Costituzione in tema di delegati regionali), che al comma 1 disponeva che «All’articolo 83 della Costituzione, il secondo comma è abrogato». 

Nella relazione al disegno di legge l’abrogazione è stata spiegata nel seguente modo: «L’articolo 17 modifica l’articolo 83 della Costituzione, prevedendo, alla luce della nuova composizione del Senato delle Autonomie, la soppressione della partecipazione dei delegati regionali nel procedimento di elezione del Presidente della Repubblica».

Con riferimento all’art. 83 sulla elezione del Presidente della Repubblica le schede di lettura del testo di legge costituzionale definitivamente approvato (pubblicato sulla G.U. n. 88 del 15 aprile 2016) riportano le seguenti precisazioni: «Si ricorda che il testo approvato dal Senato in prima lettura prevedeva il quorum della maggioranza dei due terzi dell’Assemblea fino al terzo scrutinio, dal quarto scrutinio la maggioranza dei tre quinti dell’Assemblea e, a partire dal nono scrutinio, la maggioranza assoluta.

Nel corso del successivo esame alla Camera la disposizione è stata oggetto di dibattito, in cui è stata evidenziata l’esigenza di garantire le minoranze, soprattutto alla luce della diversa legislazione elettorale, in particolare rispetto al sistema vigente nel 1948, che aveva carattere proporzionale, nonché con riguardo alla nuova platea degli elettori (ridotta nel numero sia in ragione del decremento del numero dei senatori sia della soppressione della partecipazione dei delegati regionali).

Durante l’esame in sede referente in Commissione Affari costituzionali è stata quindi approvata una proposta emendativa volta a rimodulare il quorum necessario per l’elezione, modificando le soglie previste nell’esame al Senato ed introducendo il riferimento al quorum calcolato sui “votanti” (il quorum viene innalzato rispetto a quanto previsto anche se il riferimento è ad un dato “variabile” anziché fisso qual è il numero dei componenti del plenum)».

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Si ricorda che, ai fini del numero legale, l’art. 64 della Costituzione prevede che “le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti”.

Il disegno di legge si componeva di 35 articoli che modificavano 44 articoli della Costituzione.

Il testo finale approvato si compone invece di 41 articoli: quello dedicato all’elezione del Presidente della Repubblica è diventato l’articolo 21 ed ha il seguente testo:

«Art. 21. 

(Modifiche all’articolo 83 della Costituzione in materia di delegati regionali e di quorum per l’elezione del Presidente della Repubblica). 

All’articolo 83 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:

a) il secondo comma è abrogato;

b) al terzo comma, il secondo periodo è sostituito dai seguenti: «Dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea. Dal settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti».

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Cambierebbe dunque l’elezione del Presidente della Repubblica, perché rispetto ad oggi:

  • partecipano al voto solo deputati e senatori (in quanto scompaiono i 58 delegati regionali)
  • rimane uguale il quorum delle prime tre votazioni: maggioranza qualificata dei due terzi (ovvero il 66%)
  • sale il quorum dal quarto scrutinio al sesto scrutinio: servirà la maggioranza di tre quinti (60%) contro l’attuale maggioranza assoluta (50%).
  • cambia il quorum dal sesto scrutinio in poi: servirà la maggioranza di tre quinti dei votanti invece dei tre quindi dell’assemblea, cioè della maggioranza degli aventi diritto.

Nel nuovo assetto costituzionale il collegio diventerebbe composto da 630 deputati, 100 senatori e i senatori di diritto e a vita (in quanto ex Presidenti della Repubblica).

Il calcolo del quorum sul numero dei votanti anziché dei componenti, a partire dal settimo scrutinio, comporta infatti che lo stesso diventi potenzialmente variabile, non rientrando nel computo dei votanti gli assenti e, stante l’applicazione del regolamento della Camera dei deputati, nemmeno gli astenuti: sono invece contate nel numero dei votanti sia le schede bianche sia le nulle.

Ai fini del numero legale, l’art. 64 della Costituzione (non modificato) prevede che «le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti». 

Ipotizzando quindi un’assemblea composta da 732 grandi elettori (630 deputati, 100 senatori e 2presidenti emeriti), le votazioni vedrebbero un numero legale di almeno 367 presenti, un quorum di 488 preferenze nei primi tre scrutini e di 440 nei successivi, potenzialmente minore dal settimo in caso di assenti o astenuti.

LE RAGIONI DEL SÌ

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Dal sito “Basta un sì”

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«La bufala del fronte del No sull’elezione del Presidente della Repubblica

La propaganda del fronte del No alla riforma usa spesso l’argomento del “rischio per la democrazia” che le nuove regole costituzionali determinerebbero.

É un rischio del tutto infondato e la sua evocazione è fonte di numerose “bufale” con cui faremo i conti durante la campagna referendaria e che dovremo smontare con logica e numeri alla mano.

Una di queste bufale riguarda l’elezione del presidente della Repubblica: secondo i sostenitori del No, dopo la riforma, il capo dello Stato verrebbe eletto dalla sola maggioranza.

È invece pressoché impossibile che questo accada.

La Costituzione riformata prevede che per le prime tre votazioni il Presidente debba essere eletto dai 2/3 del Parlamento in seduta comune (dunque 487 voti).

Dal quarto al sesto scrutinio, il quorum necessario sarebbero i 3/5 dei voti degli aventi diritto (438 voti), dal settimo scrutinio in poi i 3/5 dei votanti effettivi e non dei componenti.

La domanda è: potrebbe il PD, o il M5S o Forza Italia o qualsiasi altro partito eleggersi da solo il Presidente della Repubblica?

Secondo una simulazione fatta nell’ottobre del 2015 dal quotidiano La Stampa sulla base della composizione degli attuali consigli regionali (http://www.lastampa.it/2015/10/12/italia/politica/il-nuovo-senato-stravince-il-pd-7Zf7sj5Rku2bl8R81Im48N/pagina.html), ad oggi il PD disporrebbe nel nuovo Senato di 55 senatori su 100.

Se, dopo la riforma, questo partito vincesse anche le elezioni della Camera dei Deputati, a questi senatori potrebbe dunque sommare anche i 340 seggi assegnati al vincitore dall’Italicum.

In tutto farebbero 395 seggi.

I quorum per l’elezione del Presidente della Repubblica sono lontanissimi sia per le prime 3 votazioni (necessari 487 voti), sia per le successive 3 (necessari 438 voti).

Teoricamente, dalla settima votazione i voti della sola maggioranza potrebbero bastare, ma solo a condizione che i partiti di opposizione decidano di non essere presenti in Aula a ranghi compatti durante le votazioni.

E perché mai le opposizioni dovrebbero farlo?

Il caso presentato è peraltro un’ipotesi “estrema”: dopo la riforma (e dopo le prossime scadenze elettorali regionali) è possibile che nel nuovo Senato nessun partito disporrà di una maggioranza assoluta, così come è possibile che le maggioranze tra la Camera e il nuovo Senato divergano.

In un caso o nell’altro, le soglie per l’elezione dell’inquilino del Quirinale sarebbero ancora più irraggiungibili per un solo partito.

Conti alla mano, dunque, con la Costituzione riformata la maggioranza dovrà necessariamente condividere la scelta con una parte rilevante delle opposizioni.

Più di quanto sia accaduto nel passato. »

LE RAGIONI DEL NO

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Secondo le opposizioni alla riforma della Costituzione la “bufala” sulla elezione del Presidente della Repubblica sta proprio nelle cifre ipotizzate nelle ragioni del Sì.

In occasione del confronto televisivo avuto il 30 settembre scorso con il Prof. Zagrebelsky il Presidente del Consiglio dei Ministri ha sostenuto di avere innalzato il quorum ed ha affermato che «con il sistema di voto previsto oggi, dal quarto scrutinio la maggioranza semplice può eleggersi il presidente della Repubblica.  

Il Parlamento invece ha previsto di alzare il quorum fino al settimo scrutinio quando i 3/5 dei votanti previsti, sono una norma di chiusura.»  

Ha omesso di far sapere che invece cambia la maggioranza richiesta dal settimo scrutinio in poi, dimenticando che la matematica non è un’opinione, dal momento che non si può sostenere che dal settimo scrutinio in poi la “maggioranza dei tre quinti dei votanti” non può nella maniera più assoluta essere uguale in tutto e per tutto alla “maggioranza dei tre quinti dell’assemblea”, che sarà composta di 630 deputati, 100 senatori e i senatori di diritto e a vita (in quanto ex Presidenti della Repubblica), cioè quanto meno da 730 aventi diritto al voto, mentre il numero della maggioranza dei tre quinti dei votanti dal settimo scrutinio in poi sarà matematicamente per lo più inferiore ai 730 grandi elettori.

Al riguardo la costituzionalista Lorenza Caldassare ha risposto ad una intervista nel seguente modo.

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Lorenza Caldassare

«Qui le motivazioni sono addirittura basate sul falso e sull’inganno.

I fautori della riforma dicono di avere aumentato le garanzie alzando, dopo le prime votazioni, le percentuali da maggioranza assoluta ai 3/5.

Però dimenticano di dire che sono i 3/5 dei votanti anziché dei componenti.

Le garanzie le abbassano, altro che alzarle. »

Si riporta di seguito l’opinione espressa da Aldo Giannuli, ricercatore in Storia Contemporanea all’Università degli Studi di Milano, consulente per diversi anni delle Procure di Bari, Milano (strage di piazza Fontana), Pavia, Brescia (strage di piazza della Loggia), Roma e Palermo.

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Aldo Giannuli

«Il testo della riforma modifica sensibilmente la figura del Presidente della Repubblica per effetto del “combinato disposto” fra legge elettorale e riforma costituzionale.

Sinora la composizione del collegio elettorale per il Capo dello Stato prevedeva 630 deputati, 320 Senatori (315 + quelli a vita, oltre gli ex Presidenti) e 58 consiglieri regionali, per un totale di circa 1.008-10 grandi elettori, per cui la maggioranza assoluta era di 505-6.

Già l’introduzione del maggioritario ha sbilanciato fortemente la partita a favore della maggioranza governativa, ma questo trovava un limitato contrappeso nel Senato eletto “su base regionale”, per cui la maggioranza di governo era sempre più risicata che alla Camera, e nei 58 consiglieri regionali che, il più delle volte, erano divisi quasi a metà fra maggioranza ed opposizione; peraltro, la maggioranza era costantemente composta da più partiti coalizzati e, per l’elezione del Capo dello Stato, il vincolo di maggioranza non sussisteva, senza contare il ruolo dei franchi tiratori che spezzavano la disciplina di partito.

Per cui, pure avvantaggiata dal sistema maggioritario, la coalizione vincente trovava diversi limiti e la partita dell’elezione era ancora abbastanza aperta, come ha dimostrato la tormentata scadenza del 2013 terminata con la rielezione di Napolitano dopo che il Pd si era frantumato per il ruolo dei franchi tiratori.

La norma prevedeva una maggioranza dei 2/3 nelle prime votazioni, quella assoluta degli aventi diritto dalla quarta in poi.

Salvo rarissime eccezioni (De Nicola nel 1946, Cossiga nel 1985) il Presidente è sempre stato eletto dalla quarta votazione in poi.

Nel nuovo Parlamento in seduta comune, che in totale conterebbe 730 membri (non ci sono più i 58 rappresentanti delle regioni ed i senatori sono solo 100, più gli ex Presidenti della Repubblica)  la maggioranza richiesta è di 2/3, come prima, per i primi tre scrutini, del 60% dal quarto al sesto e la maggioranza assoluta (dei votanti e non degli aventi diritto) dal settimo quando basterebbero 366-7 voti qualora votassero tutti.

Considerando che con l’Italicum il partito di maggioranza dispone già di 354 seggi alla Camera, questo significa che, con altri 12-13 voti esso, dalla settima votazione, potrebbe eleggersi il Presidente da solo.

Anche perché è del tutto improbabile che il partito di maggioranza alla Camera, non disponga almeno di 1/3 dei 95 senatori provenienti dagli enti locali, il che significa una quota aggiuntiva di altri 31-32 voti cioè un pacchetto di partenza di almeno 385-6 voti, cioè una ventina in più di quelli necessari.

Ovviamente, a condizione che il gruppo parlamentare di maggioranza resti compatto e non si decomponga.

Pertanto, al vantaggio precostituito del partito di maggioranza, vengono meno tanto il contrappeso del Senato ma, soprattutto, viene meno il freno della coalizione, dato che il premio va al singolo partito che, in linea generale, può esercitare più efficacemente il vincolo disciplinare.

Detto in parole povere, l’unica insidia possibile sulla strada del “Presidente di partito” è la “congiura dei boiardi”, cioè il ruolo dei franchi tiratori interni al partito.

Dunque, l’elezione del Presidente sarebbe decisa sostanzialmente da una maggioranza che, con ogni probabilità, rappresenterebbe solo una minoranza degli elettori.

Pertanto avremmo un Presidente la cui genesi ne comprometterebbe dal nascere il ruolo arbitrale e di garante della Costituzione.

Di fatto, godrebbe dell’autorevolezza di un qualsiasi funzionario di partito.»

Il giurista Luca Benci ha espresso al riguardo il seguente giudizio.

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Luca Benci

«Come in ogni Carta costituzionale anche in quella italiana sono previsti degli organi di garanzia costituzionale che hanno la dichiarata funzione di essere dei contrappesi rispetto al potere esecutivo.

Questi organi – il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale – per le condizioni della loro nomina, diventano meno imparziali con la riforma renziana.

Dal 1948 la Costituzione riconosce nel presidente della Repubblica il “capo dello Stato” che rappresenta “l’unità nazionale”.

Gli vengono riconosciuti vari compiti tra cui quello di nominare “il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”.

Ha un importante ruolo nella formazione del governo in un sistema che è stato pensato come parlamentare.

Coerentemente i “padri costituenti” avevano previsto un quorum elevato per la sua elezione.

Gli elettori sono il parlamento in seduta comune integrato con i rappresentanti regionali: tre per ogni regione.

La sua elezione avviene se sono raggiunti i due terzi dell’assemblea e, dal terzo scrutinio, è sufficiente la maggioranza assoluta.

Nella riforma renziana i “grandi elettori” sono solo i parlamentari e il quorum è di 2/3 per i primi quattro scrutini – si pensi però al peso enorme della Camera eletta con l’Italicum e quello molto basso del Senato –, dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei 3/5 dell’assemblea e, dal riferimento ai votanti e non più all’assemblea, è chiaro che il partito che ha ottenuto il premio dell’Italicum può agevolmente votarsi da solo il presidente della Repubblica.

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Il Presidente della Repubblica conserva sostanzialmente i poteri dell’ordinamento precedente (cioè quello attuale) ma la sua posizione superpartes rischia di venire meno proprio dai meccanismi della sua elezione.»

 Il professor Vittorio Angiolini, docente di Diritto costituzionale all’Università Statale di Milano, co-firmatario dell’appello per il no dei 56 costituzionalisti, ha espresso al riguardo la seguente valutazione.

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Vittorio Angiolini

«La modifica dell’articolo 83 della Costituzione contiene quello che secondo me è un errore secco, nel senso che proprio non se ne sono accorti.

Nelle situazioni di crisi, penso all’ultima rielezione di Napolitano, cioè dal settimo scrutinio, si potrà eleggere il presidente della Repubblica con i 3/5 dei votanti.

Il che vuol dire, anche adottando l’interpretazione più rigorosa secondo la quale la votazione è valida solo se è presente la maggioranza degli aventi diritto, che la maggioranza che può eleggere il presidente della Repubblica è più ristretta della maggioranza che occorre per dare la fiducia al Governo.

È chiaro che cosa significa?

Che un Governo in crisi, privo di una maggioranza chiara sul piano dell’assemblea, può eleggere il “suo” presidente della Repubblica, magari anche a seguito di dimissioni volontarie di quello che lo precede.

Tecnicamente, il presidente della Repubblica diventerà un’appendice del Governo, un unicum in tutta l’Europa occidentale.»

 

Dott. Arch. Rodolfo Bosi

 

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