Referendum – Conoscere per votare: cosa cambia riguardo al referendum abrogativo

 

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Il vigente articolo 75 della Costituzione dispone testualmente: «È indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. 

Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. 

Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. 

La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza

degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. 

La legge determina le modalità di attuazione del referendum.»

Il disegno di legge costituzionale S 1429, presentato dal Presidente Renzi e dal Ministro Boschi, non prevedeva nessuna modifica dell’art. 75.

Nel corso dell’esame in prima lettura al Senato sono state approvate le suddette modifiche, poi mantenute ferme nel corso delle successive letture parlamentari. 

Il testo definitivo approvato è diventato il seguente.

Art. 15. 

(Modifica dell’articolo 75 della Costituzione). 

  1. L’articolo 75 della Costituzione è sostituito dal seguente:

«Art. 75. – È indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente forza di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.

Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.

Hanno diritto di partecipare al referendum tutti gli elettori.

La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto o, se avanzata da ottocentomila elettori, la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum».

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Con riferimento all’art. 75 sul referendum abrogativo le schede di lettura del testo di legge costituzionale definitivamente approvato (pubblicato sulla G.U. n. 88 del 15 aprile 2016) riportano le seguenti precisazioni: «L’articolo 15 modifica l’articolo 75 della Costituzione sul referendum abro­gativo, introducendo un diverso quorum per la validità del referendum, ossia la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera, nel caso in cui la richiesta sia stata avanzata da ottocentomila elettori.

Si ricorda che, mentre il testo originario del disegno di legge governativo S. 1429 non prevedeva modifiche all’articolo 75 Cost., nel corso dell’esame in prima lettura al Senato sono state approvate le suddette modifiche, poi mantenute ferme nel corso delle successive letture parlamentari.

Il nuovo quarto comma dell’art. 75 Cost. mantiene la possibilità per 500.000 elettori (oltre che per 5 Consigli regionali) di richiedere il referendum, lasciando in­variato l’attuale quorum di validità, ossia la maggioranza degli aventi diritto al voto.

Al contempo esso prevede, in caso di richiesta da parte di 800.000 elettori, un abbassamento del quorum, portandolo alla maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera (ovvero ad un numero di partecipanti alla votazione pari alla maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera).

A partire dal 1974 si sono svolte 66 consultazioni referendarie: in 23 casi si è avuta una maggioranza di “si” e la richiesta di abrogazione è passata; in 16 referendum si è registrata una maggioranza di “no” e la richiesta di abrogazione non è passata.

Negli altri 27 casi non ha partecipato la maggioranza degli aventi diritto, così come richiesto dall’art. 75 Cost., e i referendum hanno avuto esito nullo.

Per vent’anni, dal 1974 a 1995 si è registrata sempre la partecipazione della maggioranza degli aventi diritto al voto, ad eccezione della tornata dei tre referendum del 1990 (43% circa).

La partecipazione è comunque andata progressivamente diminuendo: dall’87,7% del referendum sul divorzio del 1974 al 58% dei tre referendum in materia televisiva del 1995.

A partire dalla tornata successiva del 1997 e fino al 2009, in nessuno dei referendum svoltisi si è registrata la partecipazione al voto della maggioranza degli aventi diritto.

Con la tornata del 2011 si ha una inversione di tendenza: i tre referendum svoltisi in quell’an­no (servizi pubblici locali, servizio idrico integrato ed energia nucleare) vedono di nuovo la partecipazione della maggioranza degli elettori, con una percentuale di poco inferiore al 55%.

Si ricorda inoltre che alcuni statuti regionali, ai fini della validità dei referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della regione, ai sensi dell’art. 123 Cost., richiedono un quorum diverso da quello indicato dall’art. 75 Cost., richiedendo la partecipazione della maggioranza degli elettori che hanno votato alle ultime elezioni regionali (così l’art. 75, comma 4, dello Statuto della Regione Toscana) o dei due quinti del corpo elettorale (così l’art. 51, comma 6, dello Statuto della Regione Lombardia).

Pronunciandosi in ordine al citato art. 75 dello Statuto della Regione Toscana la Cor­te Costituzionale (sentenza 372/2004) ha rilevato come non si possa considerare princi­pio vincolante per lo statuto la determinazione del quorum strutturale prevista dall’art. 75 della Costituzione considerato che la materia referendaria rientra espressamente, ai sensi dell’art. 123 della Costituzione tra i contenuti obbligatori dello statuto.

In tale occasione la Corte ha osservato che non appare irragionevole, in un quadro di rilevante astensionismo elettorale, stabilire un quorum strutturale non rigido, ma flessibile, che si adegui ai vari flussi elettorali, avendo come parametro la partecipazione del corpo elettorale alle ultime vota­zioni del Consiglio regionale, i cui atti appunto costituiscono oggetto della consultazione referendaria. 

Una seconda modifica riguarda la platea degli aventi diritto a partecipare al referendum, che comprende nel nuovo testo, in via generale, “tutti gli elettori” anziché “tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati”.

Si ricorda, in proposito, che l’art. 48, primo comma, Cost. dispone che “sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età.”

Un ultimo intervento riguarda una modifica (primo comma), che sembre­rebbe peraltro di carattere formale, sugli atti che possono essere oggetto di re­ferendum: si fa infatti riferimento, oltre alle leggi, agli atti “aventi forza di legge” anziché agli atti “aventi valore di legge”.

Le due espressioni “atti aventi forza di legge” e “atti aventi valore di legge” sono generalmente considerate equivalenti e sono usate indifferentemente dalla Costi­tuzione.

In particolare, la Costituzione utilizza il termine “forza di legge” con riferimento a:

  • i provvedimenti provvisori che il Governo adotta in casi straordinari di necessità e ur­genza (ossia i decreti legge, ex art. 77, secondo comma, Cost.);
  •  gli atti oggetto del giudizio dinnanzi alla Coste costituzionale (art. 134 Cost.);
  •  gli atti oggetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale (art. 136 Cost.).

La Costituzione usa invece il termine “valore di legge” relativamente a:

  •  gli atti che possono essere oggetto di referendum abrogativo (art. 75, primo comma, Cost.);
  •  gli atti promulgati dal Presidente della Repubblica (art. 87, quinto comma, Cost.);
  • i decreti che il Governo può emanare previa delegazione delle Camere (ossia i decreti legislativi, ex art. 77, primo comma, e 76 Cost.);
  •  gli atti impugnabili dalle Regioni in via principale davanti alla Corte costituzionale (art. 127, secondo comma).

Non è oggetto di modifica il secondo comma dell’art. 75 Cost. che individua i limiti della materia referendaria (leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali), cui si è affiancata, nel tempo, una copiosa giurisprudenza costituzionale sui limiti impliciti e sulla relativa ammissibilità.

Parimenti, è immodificato il quinto comma dell’art. 75 Cost., che demanda alla legge la determinazione delle modalità di attuazione del referendum.

Com’è noto, attualmente la legge 25 maggio 1970, n. 352, reca norme sui referendum pre­visti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo.

A sua volta, il novellato art. 70, primo comma, Cost. include tra le leggi ad approvazione bicamerale quelle attuative delle disposizioni costituzionali concer­nenti i referendum popolari.

Si ricorda, infine, che nel corso dell’esame in prima lettura al Senato, ulteriori disposizioni relative al referendum abrogativo erano state introdotte nell’ambito delle disposizioni tran­sitorie e finali nel corso dell’esame in Commissione.

Tali disposizioni sono state successiva­mente soppresse nel corso dell’esame in Assemblea.

Esse prevedevano:

– una legge di attuazione del nuovo articolo 75, con un termine effettivo non inferiore a 180 giorni per la raccolta delle sottoscrizioni sulla richiesta di referendum; fino all’approvazione della legge attuativa avrebbe continuato ad applicarsi il testo attualmente vigente dell’ar­ticolo 75 (il termine per l’approvazione era 18 mesi dall’inizio della prossima legislatura) (art. 38, commi 12 e 13, AS 1429-A);

– un anticipo del giudizio sull’ammissibilità del referendum da parte della Corte costituzio­nale, da svolgersi dopo la raccolta, nel termine di 90 giorni, di almeno 400.000 sottoscrizio­ni (si ricorda che nel testo della Commissione per la richiesta di referendum erano in ogni caso necessarie 800.000 sottoscrizioni) (art. 39, comma 6, AS 1429-A).»

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LE RAGIONI DEL SÌ

 Dal sito “Basta un Sì”

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Articolo 75: più valore ai referendum abrogativi

Uno degli argomenti più dibattuti, sin dall’inizio della campagna referendaria, è stato l’articolo 75, che disciplina l’istituto del referendum abrogativo.

È bene fare chiarezza, perché l’istituto del referendum riguarda la partecipazione dei cittadini al processo democratico, e merita di essere trattato puntualmente, al di là delle mistificazioni.

Il primo comma stabilisce che il referendum abrogativo abbia “forza di legge”, e rimane pressoché invariato dalla riforma.

Anche il secondo comma dell’articolo 75 non cambia, e continua a porre i medesimi limiti alla utilizzazione di tale istituto, prevedendo che non possa essere “ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”, sulla base del rilievo che alcuni atti richiedano una ponderazione particolarmente ragionata, che non possa essere ridotta alla dicotomia SÌ-NO.

Il terzo comma, similmente, non subisce modifiche sostanziali, e stabilisce che “hanno diritto di partecipare al referendum tutti gli elettori”.

L’innovazione più importante deriva dalla integrazione effettuata del quarto comma, che disciplina le modalità attraverso le quali un referendum viene considerato valido.

Attualmente si prevede che il referendum sia valido se vengono raccolte 500 mila firme per la promozione e se partecipino alla consultazione almeno la maggioranza dei cittadini aventi diritto al voto.

Questa previsione, seppure logica ed apprezzabile, ha reso molto complicata la validazione di molti referendum proposti nel corso degli anni.

Volgiamo lo sguardo alla pratica.

Numerosi dei referendum proposti durante gli anni non sono stati considerati validi per mancato conseguimento del quorum, pur essendo sostenuti, in molti casi, da gran parte della pubblica opinione.

Prendiamo ad esempio il referendum del 1999 per eliminare la quota proporzionale prevista nel sistema elettorale: a questo referendum votò il 49,7% degli aventi diritto, e la consultazione non fu ritenuta valida per un misero 0.3% di non votanti.

Oppure la proposta di referendum del 1990, avanzata da Radicali e Verdi, che si proponeva di impedire le utilizzazioni di pesticidi nell’agricoltura: in questo caso votò il 43.1% degli aventi diritto al voto.

Pur raccogliendo ampissimi consensi, buona parte delle battaglie referendarie sono state combattute sulla scia dell’astensione, più che dei contenuti.  

È del tutto evidente che questa prassi svilisca, in certa misura, un istituto teorizzato per ampliare la partecipazione. 

Per questo motivo la riforma ha integrato il disposto dell’articolo 75, quarto comma, stabilendo che la proposta di referendum venga approvata se “avanzata da ottocentomila elettori” e la votazione ritenuta valida se “la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati” vi abbia partecipato.

Insomma, dal 4 dicembre in poi, i referendum avranno due possibilità di realizzazione: 500 mila firme con un quorum del 51% degli elettori, oppure 800 mila firme con un quorum del 51% dei votanti alle ultime elezioni politiche – che equivale in media al 35% circa degli elettori.

Sia ben chiaro: una forma non esclude l’altra.

Alcuni oppositori della riforma descrivono questa modifica come un attacco alla democrazia e un indebolimento dell’istituto del referendum in quanto saranno necessarie più firme.

Accusa decisamente infondata.

Oltre al fatto che l’introduzione delle 800 mila firme non esclude il sistema delle 500 mila, è bene ricordare che nel 1946, quando furono prescritte le 500 mila firme, l’Italia era composta da 45 milioni di abitanti, cifra oggi aumentata di 15 milioni.

È evidente che le proporzioni tra popolazione e firme necessarie sono cambiate rispetto al disposto originale.

La riforma costituzionale consegue l’obiettivo di conferire dignità ad uno strumento di partecipazione la cui utilizzazione è stata sempre svilita dall’astensione.

Con il nuovo articolo 75 potremo avere, finalmente, battaglie referendarie fondate sui contenuti, mai più sull’astensione.

 

LE RAGIONI DEL NO

Il NO per l'alternativa

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Alessandro Pace, Professore emerito di diritto costituzionale – Università La Sapienza di Roma, Presidente del Comitato per il No nel referendum sulla legge Renzi-Boschi si è espresso al riguardo nel modo seguente.

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Alessandro Pace

«7.3.3. …..

La seconda novità (immediatamente efficace) è relativa al referendum abrogativo.

In forza di essa è stato aggiunto, in pessimo italiano, che «La proposta soggetta a referendum» si ritiene approvata dalla «maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati» «se avanzata da ottocentomila elettori » (“nuovo” art. 75 comma 4).

Il che verrebbe senz’altro incontro alle istanze referendarie dei partiti rappresentati in Parlamento (non invece delle formazioni sociali non strutturate, notoriamente penalizzate dalle capziose difficoltà per la raccolta delle firme).

Infatti mentre nei referendum del 2011 il quorum fu di poco inferiore ai 25 milioni di elettori, allora abbondantemente superato, a seguito invece della modifica della legge Boschi, il quorum scenderebbe a meno di 18 milioni in considerazione dei risultati elettorali del 2013.

Ciò nondimeno non si devono nemmeno nascondere le difficoltà derivanti dal distacco degli elettori dalla politica, in conseguenza del quale la raccolta di 300 mila ulteriori firme rappresenta un ostacolo pressoché insormontabile nei tre mesi previsti.»

Massimo Villone, già senatore e professore di diritto costituzionale della Università Federico II, ha individuato 30 ragioni per dire NO alle riforme della Costituzione e legge elettorale Italicum.

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Massimo Villone

La 24° di queste ragioni riguarda il presunto rafforzamento del referendum abrogativo.

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Il giurista Luca Benci ha espresso al riguardo il seguente giudizio.

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Luca Benci

«Il referendum abrogativo – La storia dei referendum abrogativi è decisamente lunga pur essendo partita con qualche decennio di ritardo.

La legge ordinaria di attuazione è del 1970 e prevede la raccolta di 500.000 firme di elettori o di 5 Consigli regionali (come avvenuto nel caso del recente referendum sulle “trivelle”).

I primi referendum furono molto partecipati e di grande rilievo sulla tematica dei diritti civili.

Il referendum abrogativo per la legge sul divorzio – firme richieste da parte di settori della Democrazia Cristiana – si celebrò del 1974, mentre i due referendum sull’abrogazione della legge sull’aborto (uno cattolico, l’altro radicale) si celebrarono nel 1981.

Entrambi confermarono la legge che si voleva abrogare.

Successivamente, soprattutto per impronta del partito radicale, ci furono iniziative decisamente inflazionistiche dell’istituto referendario che hanno contribuito allo svilimento dello stesso con una partecipazione nel tempo sempre più bassa.

Il problema della partecipazione non è secondario, in quanto per essere valido il referendum deve raggiungere il quorum di almeno la maggioranza degli elettori “avente diritto”.

A partire dal referendum sulla caccia (1987) sono state adottate campagne astensionistiche con il dichiarato tentativo di fare fallire il referendum – e di conseguenza salvare la legge il cui giudizio si voleva sottoporre ai cittadini – sommando i voti degli astensionisti ai contrari.

Per lunghi anni la campagna astensionistica ha funzionato e l’istituto del referendum – unico strumento di democrazia partecipata esistente di fatto – ne ha risentito profondamente.

Il referendum è uno strumento pensato per dare voce alle minoranze a fronte di leggi di cui si chiede o meno la conferma popolare.

Le campagne astensionistiche sono state favorite e incoraggiate addirittura da comportamenti governativi come nell’ultimo referendum sulle trivelle o da confessioni religiose come nel caso della Chiesa cattolica con il referendum sulla procreazione medicalmente assistita.

Il punto di svolta, negli ultimi anni, è stato senza dubbio il referendum sull’acqua pubblica che ha raggiunto il quorum nonostante la campagna astensionistica favorita dall’allora governo Berlusconi.

Un altro problema dell’istituto del referendum è dato dalla sua concreta attuazione.

Se il referendum fallisce – per mancanza di quorum o per la conferma da parte degli elettori attraverso il “no” all’abrogazione – nulla quaestio.

Se invece si procede all’abrogazione ci possono essere seri problemi di inattuazione come nel caso del recente referendum sull’acqua pubblica.

Una riforma della Carta costituzionale che vuole definirsi tale dovrebbe avere come obiettivo quello di allargare gli strumenti di democrazia partecipata.

I sostenitori del Si lo propagandano come tale.

L’unica novità è relativa all’innalzamento delle firme – 800 mila – per avere in cambio l’abbassamento del quorum: si passerebbe, infatti, dalla maggioranza degli aventi diritto alla “maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati”.

Altrimenti, con la raccolta delle 500 mila firme, rimane il vecchio quorum.

800 mila firme sono un traguardo che quasi mai è stato raggiunto durante le raccolte di firme referendarie.

Nulla invece viene detto sulla concreta attuazione delle disposizioni abrogate.»

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Ulteriori considerazioni – Se le stesse ragioni del Sì ammettono che numerosi dei referendum proposti durante gli anni non sono stati considerati validi per mancato conseguimento del quorum, il problema doveva essere allora soltanto quello di abbassare il quorum in modo certo e fisso (e non “ballerino” come è stato fatto riferendosi alla “maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati”), cancellando l’obbligo della partecipazione alla votazione della “maggioranza degli aventi diritto” e lasciando la sola condizione della “maggioranza dei voti validamente espressi.”

L’aver lasciato da una parte l’obbligo di una proposta di referendum abrogativo approvata solo se viene raggiunto il 50% più uno dei voti validamente espressi e l’aver aggiunto dall’altra parte una analoga approvazione nel caso che alla votazione abbia partecipato “la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati”, ma solo e soltanto se sono state raccolte 800.000 firme (vale a dire un 60% in più delle 500.000 firme) non sembra del tutto corretto sul piano giuridico e si configura come un indebolimento dell’istituto del referendum in quanto saranno necessarie più firme.

La “tesi” portata dalle ragioni del Sì secondo cui “nel 1946, quando furono prescritte le 500 mila firme, l’Italia era composta da 45 milioni di abitanti, cifra oggi aumentata di 15 milioni”, ammesso e non concesso che la cifra delle 500.000 firme sia stata decisa dai padri costituenti in proporzione alla popolazione di quell’epoca, avrebbe dovuto comportare allora come unica modifica l’innalzamento ad 800.000 del numero delle firme necessarie per proporre un referendum abrogativo: l’avere invece lasciato la cifra delle 500.000 firme appare in netta contraddizione con la suddetta “tesi”.

 

Dott. Arch. Rodolfo Bosi

 

 

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