Le mani della Cina sulle risorse globali e sull’ambiente

 

La Cina ha annunciato che non abbandonerà i suoi impegni climatici, nonostante la svolta antiambientalista e isolazionista imposta da Trump alla politica globale statunitense, ma intanto Pechino continua ad investire come prima e più di prima in un numero enorme di progetti energetici, minerari, agricoli e infrastrutturali praticamente su tutti i continenti, un espansionismo economico impressionante che sta avendo un impatto ambientale senza precedenti sul pianeta.

A raccontarlo nell’articolo “The Dark Legacy of China’s Drive for Global Resources”, pubblicato su Yale Environment 360, è uno dei più noti e premiati scienziati australiani, William Laurance, della James Cook University, che negli ultimi 35 anni ha lavorato in Amazzonia, Africa e nell’Asia-Pacifico occupandosi di questioni ambientali, riguardanti soprattutto le foreste tropicali, la biodiversità e i driver  dei cambiamenti di utilizzo dei suoli e dei cambiamenti climatici. «Ho visto molte cose – scrive Laurance – alcune buone, altre incredibili, alcune strazianti.  

Ma non ho mai visto una nazione che ha un impatto così schiacciante sulla terra come ora la Cina.   

In tutto il mondo, in quasi tutti i continenti, la Cina è coinvolta in una serie vertiginosa di progetti estrazione di risorse, energetici, agricoli  e infrastrutturali – strade, ferrovie, dighe idroelettriche, miniere – che stanno scatenando danni senza precedenti per gli ecosistemi e la biodiversità.  

Questo attacco sarà probabilmente facilitato dall’attacco anti-ambientale e dal crescente disimpegno a livello internazionale dell’amministrazione Trump».

Eppure, come ben sanno i lettori di greenreport.it, la Cina è fortemente impegnata nella riconversione verde della sua economia: investe fortemente nell’energia eolica e solare, combatte contro l’inquinamento atmosferico che avvelena le sue metropoli, pianta alberi su centinaia di km2 di terreni disboscati da uno sviluppo scriteriato, ha deciso di vietare l’importazione e vendita di avorio per salvare gli elefanti africani e asiatici…

Ma per Laurance le green economy made in China è anche un paravento per nascondere il degrado ambientale che le sue aggressive politiche e le sue imprese stanno causando in tutto il mondo.

Per lo scienziato australiano la svolta internazionale cinese è iniziata nel 1999, quando la politica della Zǒuchūqū Zhànlüè  (Going Global Strategy) ha liberalizzato gli investimenti e ha fornito incentivi finanziari per incoraggiare gli investimenti e i contratti all’estero. 

La Cina disponeva di enormi riserve in valuta estera e  il socialismo maoista era stato sepolto da Deng Xiaoping che aveva invitato i cinesi a diventare ricchi.

È da allora che c’è stato il boom degli investimenti cinesi all’estero, con un impatto sulla natura enorme.

All’estero, l’impronta ecologica più profonda la Cina la lascia nelle miniere, nell’estrazione di combustibili fossili e nell’accaparramento delle materie prime agricole e di legname.

Tutte attività che hanno bisogno  di strade, ferrovie e altre infrastrutture per spostare le risorse naturali dalle aree interne fino ai porti costieri, per esportarle in Cina. 

Attività che, nonostante il recente rallentamento dell’economia cinese, continuano a crescere, con grandi progetti in corso e previsti nei Paesi in via di sviluppo.

Laurance rivela che «dal 2004 al 2014, la China Export-Import Bank ha svolto un ruolo di primo piano nel finanziamento con 10 miliardi di progetti ferroviari nell’Africa orientale, molti dei quali sono stati costruiti da corporations cinesi.  

I cinesi stanno aiutando a finanziare e costruire grandi reti ferroviarie in Kenya e Uganda, una linea delle quali è progettata per passare attraverso il Nairobi National Park».

Le compagnie cinesi stanno penetrando nel cuore remoto del Bacino del Congo e Laurance ha verificato di persona che sono pesantemente coinvolte nella costruzione di strade, apertura di miniere e deforestazione in Camerun e Repubblica del Congo.

Le cose non vanno meglio in Sud America, dove i cinesi vogliono costruire una ferrovia lunga quasi 5.000 Km che attraverserebbe foreste e savane per trasportare soia, legname e altre risorse fino alla costa del Pacifico, da dove spedirle in Cina. 

Il Perù in cambio ha chiesto 60 miliardi di dollari e i cinesi ci stanno pensando.

Su Yale Environment 360 Laurance ricorda che la Cina è il più grande finanziatore e costruttore di dighe idroelettriche, molte delle quali in costruzione in aree ricchissime di bodiversità, dove le dighe e le strade e linee elettriche di cui hanno bisogno apriranno accessi per sfruttare nuovi territori in tutto il mondo: «La Cina è coinvolta nella progettazione,  finanziamento o costruzione di grandi dighe in Africa, tra cui l’enorme  Grand Ethiopian Renaissance Dam, ora in fase di completamento.  

Un consorzio di aziende cinesi sta facendo un’offerta per aiutare a costruire la diga di Grand Inga sul fiume Congo, una serie di dighe che potrebbero diventare il più grande progetto idroelettrico del mondo.  

Anche se la costruzione potrebbe iniziare alla fine di quest’anno, la Repubblica Democratica del Congo non ha finora fatto nessuno studio di impatto ambientale».

La Cina ha recentemente proposto due iniziative internazionali molto ambiziose: la Belt & Road e la “21st Century Maritime Silk Road” che permetterebbero la creazione di una grande rete di trasporto e altri progetti infrastrutturali, progettati per accelerare lo sviluppo della Cina e promuovere i suoi interessi economici e politici con una rete di collegamenti estesi in tutta l’Asia e che raggiungono l’Europa e l’Africa, che permetterebbero alla Cina di accedere facilmente a mercati dove vive il  64% della popolazione mondiale e che producono il 30% del Pil globale.

Gli investimenti cinesi nei Paesi in via di sviluppo hanno migliorato le infrastrutture e  portato benefici sostanziali in alcuni Paesi, come ad esempio la nuova linea ferroviaria che collega la capitale etiope di Addis Abeba e il porto di Gibuti, nel Golfo di Aden. 

Ma Laurance dice che  «purtroppo, le imprese e gli investitori cinesi raramente portano avanti uno  sviluppo economico e sociale equo, una migliore governance e sostenibilità ambientale che promuovano una crescita stabile e a lungo termine nelle economie in via di sviluppo.  

Un approfondito rapporto del Global Canopy Program, un gruppo scientifico del Regno Unito, ha concluso che le imprese e le organizzazioni finanziarie cinesi sono tra le peggiori imprese del mondo in termini di avvio della deforestazione tropicale.  

La Cina è stata a lungo il buco nero del commercio illegale della fauna selvatica, il più grande consumatore mondiale di tutto, dai pangolini, alle parti di tigre, dalle pinne di squalo al corno di rinoceronte.  

Il promesso divieto di commercio pubblico di avorio in Cina è un buon segno, ma è solo un aspetto di un fiorente commercio illegale di animali selvatici che favorisce gli intensi livelli di bracconaggio a livello internazionale.  

E la Cina ha un forte consumo di legname illegale, nonostante abbia tardivamente adottato misure per arrestarne l’afflusso nei suoi mercati. In Africa occidentale, le foreste di palissandro vengono illegalmente spogliate, quasi esclusivamente per alimentare forte domanda in Cina.  

Gli impatti sono ancora più pesanti in tutta la regione dell’Asia-Pacifico, dove le foreste originarie,  dalla Siberia alle Isole Salomone sono sovra-sfruttate per alimentare i mercati del legname cinesi».

In Cina la domanda di olio di palma, legname, carne di manzo, frutti di mare e agricoli biologici e certificati è scarsa, indebolendo gli sforzi globali per gestire queste risorse in modo più sostenibile. 

La Cina è uno dei maggiori importatori al mondo di olio di palma – una delle principali cause della deforestazione tropicale – ma  il governo cinese penalizza con forti dazi l’importazione di olio di palma certificato ecologico.

Naturalmente, non è solo la Cina a promuovere i propri interessi economici rispetto a quelli degli altri Paesi, i Paesi in via di sviluppo hanno impresso nella loro carne e nella loro economia il colonialismo e il neocolonialismo europeo e il suo spietato sfruttamento delle risorse.

Anche recentemente, multinazionali occidentali hanno provocato estesi e duraturi disastri ambientali, come la Shell in Nigeria, l’Union Carbide in India e la Texaco in Ecuador.

Per Laurance la differenza con la Cina la fanno le dimensioni: «Con quasi un quinto della popolazione mondiale (1,35 miliardi di persone), una cultura d’impresa altamente competitiva, poca tolleranza alla critica e una capacità sorprendente di fare cambiamenti decisivi in ​​corsa, la Cina è impareggiabile come una forza globale.  

Nessuna nazione ha mai cambiato il pianeta così rapidamente, su così larga scala, e con tanta determinazione a senso unico.  

È difficile trovare un angolo del mondo in via di sviluppo in cui la Cina non stia avendo un impatto ambientale significativo.  

I fattori che potrebbero frenare gli Usa o un Paese europeo a sviluppare progetti esteri di sfruttamento della risorse – forti critiche della stampa critica, o leggi che regolano le pratiche commerciali estere – sono in gran parte carenti nella Cina di oggi.  

Ad esempio, mentre le companies Usa sono vincolate dalle leggi anti-corruzione del Foreign Corrupt Practices Act, non c’è una normativa analoga che regoli la condotta degli uomini d’affari e delle corporations cinesi.  

Gli europei in Africa si lamentano spesso dell’entità degli illeciti cinesi.  

“Hanno accesso direttamente alle alte cariche e le corrompono generosamente e quindi nessuno li può fermare”, un forestale olandese nella Repubblica del Congo mi ha detto. “Usavamo offrire piccoli “regali” a molte persone, ma ora il denaro è tutto concentrato ai vertici  e la corruzione è fuori controllo”».

Secondo il rapporto “Are Foreign Investors Attracted to Weak Environmental Regulations? Evaluating the Evidence from China” che analizza circa 3.000 progetti, gli investitori esteri e le compagnie cinesi spesso predominano nelle nazioni più povere e con normative e controlli ambientali deboli, facendo diventare quegli Stati “paradisi dell’inquinamento” per le imprese cinesi.

E Laurance fa notare che «l’entità internazionale dello sfruttamento delle risorse internazionale della Cina è solo destinato ad aumentare». 

L’Asian Infrastructure Investment Bank (Aib) di Pechino ha grossi capitali  si sta muovendo rapidamente per finanziare progetti all’estero con misure di salvaguardia ambientale e sociale “razionalizzate”. 

Nel 2016 la Banca mondiale ha ammorbidito le sue tutele ambientali e sociali, e i molti dicono che lo abbia fatto per rimanere competitiva con l’Aib. 

Recentemente, Laurance ha scritto su The Conversation che  l’Aib e altre banche di sviluppo cinesi potrebbero innescare una “corsa al ribasso” tra i finanziatori multilaterali – con conseguenze potenzialmente gravi per l’ambiente globale.

Negli ultimi 10 anni diversi ministeri cinesi hanno pubblicato “libri verdi” che fissano orientamenti ambientali e sociali molto alti per ventures e corporations cinesi che lavorano all’estero, ma il governo centrale di Pechino ammette che quelle linee guida vengono applicate scarsamente, ma non se ne assume nessuna colpa: dice di aver poco controllo su queste corporations e accusa i Paesi che le ospitano di non tenere sotto attento controllo le compagnie cinesi.

«La verità – scrive Laurance su Yale Environment 360è – è che mentre le imprese private cinesi godono di notevole autonomia dal Partito comunista centrale, la Cina è tra le società più controllate a livello centrale del mondo.  

Se la Cina voleva davvero regnare sulle sue aziende che vanno a ruota libera, potrebbe facilmente farlo facendo alcune forti dichiarazioni ufficiali punendo visibilmente alcuni peccatori stravaganti. Non lo ha fatto per un semplice motivo: Nonostante le loro attività ambientali spesso famigerate, le corporations cinesi che operano all’estero sono enormemente redditizie».

Al suo interno, la Cina deve ancora fare i conti con una crescita vertiginosa che ha avuto un impatto enorme per quanto riguarda i cambiamenti climatici: ha superato gli Usa come il più grande inquinatore di CO2 del mondo:  ora produce il doppio delle emissioni di gas serra degli Usa,  così come grandi quantità di inquinanti atmosferici pericolosi come zolfo, biossido e ossidi di azoto. 

« – spiega Laurance –  la Cina sta investendo nelle nuove tecnologie solari ed eoliche, ma si sta immettendo molto più denaro nel grande idroelettrico, nel  carbone e nei progetti di energia nucleare.  

In aggiunta alla sua monolitica g diga delle Tre Gole , il più grande progetto idroelettrico del mondo, la Cina sta costruendo o progettando la costruzione di 20 mega-dighe lungo il suo tratto del fiume Mekong, il che potrebbe avere gravi ripercussioni sulla biodiversità, la pesca e su chi utilizza l’acqua nelle nazioni a valle , come il Laos, la Cambogia e il Vietnam».

Ieri greenreport.it ha pubblicato la notizia che il presidente cinese Xi Jinping ed altri alti dirigenti del Partito comunista cinese hanno partecipato in pompa magna ad una grande piantumazione di alberi a Pechino e in molti portano la Cina ad esempio per l’imponente opera di rimboschimento che è iniziata all’inizio nel 1978 e che ha riforestato circa 260.000 Km2, soprattutto nella Cina occidentale.

Ma anche in questo caso Laurance fa notare che «sì, quegli alberi immagazzinano carbonio, contribuendo a stabilizzare i suoli e a ridurre il deflusso dei sedimenti nei corsi d’acqua, e producono legname per segherie dell’interno della Cina.  

Ma quasi tutti gli alberi piantati sono monocolture di specie esotiche come l’eucalipto e il pioppo, che hanno scarso valore come habitat per la fauna selvatica.  

Inoltre, nel sud della Cina, sono state abbattute grandi distese di foreste pluviali biologicamente ricche sono per farci piantagioni di gomma esotiche. 

La Cina, soffocata e avvelenata dall’inquinamento della crescita senza freni avviata da Deng Xiaoping, ora presta  sempre più attenzione alla sua acqua, al suolo e alla qualità dell’aria, che è tra le peggiori del mondo in decine delle sue metropoli, a cominciare da megalopoli come Pechino, Shanghai e Xingtai.  

Ma grandi aree della Cina orientale e centrale sono ormai luoghi fortemente inquinati e malsani per le persone e la biodiversità e lo stesso governo centrale e gli scienziati cinesi ammettono che l’impressionante biodiversità della Cina ha sofferto molto a causa di una crescita incontrollata ad alta intensità inquinante

Laurance è molto preoccupato perché, «mentre l’impatto ambientale della Cina continua a crescere a livello nazionale e internazionale, l’amministrazione Trump – con la sua agenda anti-ambientalista e nazionalista, naturalmente isolazionistica – si è già tirata fuori dalla Trans-Pacific Partnership.  

La Cina e le sue banche di investimento all’estero stanno buttandosi  nel vacuum del Pacifico.  

L’Amministrazione Trump sembra a mala pena consapevole di queste pressanti realtà.  

E questo lascia gli ambientalisti in un vero vicolo cieco.  

Non ci saremmo mai aspettato che Trump riuscisse a farsi eleggere e ancor meno che sostenesse i nostri punti di vista.  

Ma le debolezze dell’amministrazione Trump potrebbero portare d un più ampio declino degli Usa, che accelererà il degrado ambientale in tutto il mondo».

Per Laurance il peggior scenario possibile per il mondo è molto simile a quel che sta succedendo e conclude raccontando una cosa che gli è successa: «Due anni fa, stavo discutendo con un ricercatore dalla Wildlife conservation society in Cambogia se la society dovesse dare consigli a una banca di sviluppo tedesca su come costruire una strada asfaltata attraverso il cuore della Foresta di Seima, un paradiso per la fauna selvatica rara.  

Odiava farlo, ma non vedeva molte altre scelte. “Se non aiutiamo i tedeschi”, ha detto lo scienziato, “potrà entrarci solo una corporation cinese e farà in ogni caso la strada che la attraversa: e questo sarebbe un disastro ecologico”».

 

(Articolo pubblicato con questo titolo il 31 marzo 2017 sul sito online “greenreport.it”)

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