La conservazione è impossibile, se non si ragiona diversamente

 

Riceviamo e pubblichiamo un contributo provocatorio e stimolante riguardo ai problemi di conservazione della natura scritto da Franco Perco, uno dei maggiori esperti italiani di ungulati, in anni recenti direttore del Parco nazionale dei Monti Sibillini e soprattutto autore di “Andare in natura. Fruire meglio, fruire per sempre e crescere”, pubblicato in seconda edizione a Trento dalla Editrice Temi nel 2014.

Che il cammino della conservazione in Italia sia irto di ostacoli e, oggi soprattutto, segni il passo con alcune sconfitte preoccupanti dovrebbe essere abbastanza pacifico.

Tuttavia, forse, questa preoccupazione non è del tutto condivisa: in fin dei conti, dicono alcuni, abbiamo una rete di aree protette mediamente efficienti se non altro perché esistono, alcune specie una volta in pericolo sono in buona salute (Lupo) o sono in aumento (Orso alpino, Camoscio appenninico, Grifone).

Altre hanno consistenze a dir poco ragguardevoli, se si pensa all’inizio del ‘900, come per esempio gli Ungulati.

Questo per le specie di maggiori dimensioni.

Ma non altrettanto possiamo dire di specie di dimensioni piccole e minime, dall’Erpetofauna agli Insetti, per tacere dell’Avifauna.

Inoltre, il consumo di ambiente prosegue a ritmi tangibili e la sua banalizzazione altrettanto.

Ma se questi motivi di preoccupazione non bastano, molto di più lo dovrebbero un’insieme di modi di pensare i quali sono accettati, portati ad esempio e condivisi, pur essendo oggettivamente contro la conservazione.

Ora, è facile condannare come nemici da battere la speculazione, l’inquinamento, il bracconaggio, l’incuria e persino i cambiamenti climatici.

Molto difficile è invece assumere atteggiamenti critici nei confronti di azioni ritenute altamente positive o innocue.

Ed è allora alquanto impopolare criticare ciò che appare “buono” e, viceversa, apprezzare ciò che secondo la maggior parte è “cattivo”.

Conscio di questo rischio, provo a suggerire che la conservazione nazionale è in condizioni ancora peggiori proprio per l’accettazione acritica di alcune credenze in materia di natura e biodiversità.

E provo a elencarle sinteticamente.

L’invecchiamento.

Parlo della popolazione, forse non è tanto ovvio.

Poiché fortunatamente la vita si allungherà, è chiaro che la popolazione nazionale dovrebbe crescere, per prevenire questa ipotetica iattura.

Crescere per sempre, obbedendo alla legge dello sviluppo eterno.

Ma non dovrebbe essere così: siamo comunque animali e nessuna popolazione animale può crescere indefinitamente.

Quando una popolazione raggiunge il punto al quale ha esaurito le risorse (livello K), si stabilizza e l’invecchiamento è una conseguenza ovvia.

Inoltre, la nostra specie è sempre più esigente: di sicurezza, di tempo libero, di divertimenti, di tranquillità e di riposo e persino … di luoghi incontaminati.

Ma le risorse?

Sono limitate.

La lotta all’invecchiamento motivata con la frase “chi pagherà le nostre pensioni?” è un modo miope di vedere il futuro: quando i nuovi giovani invecchieranno ci sarà la necessità, secondo questa teoria, di altri giovani per lo stesso motivo.

E così via, con un aumento senza fine della popolazione nazionale, oggi al traguardo poco invidiabile di 202 abitanti per kmq.

Allora, meglio l’invecchiamento.

L’abbandono.

L’abbandono insediativo e produttivo della montagna e dell’alta collina ha creato la premesse per una loro rinaturalizzazione.

Eppure, si pensa che sia un male abbandonare ciò che pure è stato sovrasfruttato con le conseguenze di miseria ed emigrazione, un male al quale rimediare con il recupero insediativo, costi quel che costi.

Ma alla natura e alla conservazione costerà moltissimo.

In Piemonte non è stato l’abbandono ma i piromani a causare incendi.

Un bosco con un ricco sottobosco significa più natura e quindi più conservazione.

L’abbandono è una dieta salutare, per la conservazione.

La tecnologia.

Permette di compiere imprese impossibili, con poco rischio e minima fatica.

Quindi con poca consapevolezza.

Facilita il raggiungimento di zone fragili, che si erano conservate proprio grazie ad una certa inacessibilità.

I pochi che la violavano lo facevano grazie a grandi sacrifici e acquisivano, proprio per questo, una coscienza del valore di quel bene adoprandosi allora per la sua conservazione.

La tecnologia è dunque diseducante, se guardiamo alla natura.

La sicurezza.

È connessa al problema della valutazione sempre benefica della tecnologia.

Certo, la tecnologia ci aiuta ed è indispensabile.

Come del resto la sicurezza, alla quale tutti agogniamo.

In città ed entro certi limiti però.

Mentre le zone naturali sono tali perché sono insicure.

Non sono parchi urbani e devono rimanere dotate di quel requisito che ce li fa amare: la non prevedibilità, la non domesticazione, il pericolo, il rischio.

Anche di morte.

Che natura sarebbe senza il pericolo di morte?

Bene la sicurezza nelle aree urbane.

Male in quelle naturali.

La conservazione, anche come avventura, esige sempre un certo rischio.

La musica.  

Nulla di meglio, si dice, che fare concerti nelle aree naturali più belle, più suggestive, selvagge.

Possibilmente nelle aree protette.

Migliaia di persone si convertono alla natura e acquistano sensibilità dopo avere ascoltato, per esempio, Vasco Rossi.

Solo che non è vero.

Non c’è nessuna conversione, nessuna consapevolezza.

Ma immondizie e disturbo.

E il prezzo è la natura violata.

Toscanini diceva che i concerti si fanno nelle sale adatte.  

Aveva ragione.

Lo sport.

Lo sport è buono di per sé, si dice.

Fortifica, educa, rende più sani.

Benissimo, negli impianti ad esso destinati.

Ma la natura non è una palestra.

Gli sport in natura stanno aumentando in modo esponenziale grazie sopratutto ad una tecnologia mirata, che rende irrisoria o facilmente tollerabile la fatica fisica e mentale.

Lo sport è inoltre autoreferenziale, per sua natura.

Quindi, è poco accorto dei valori che va a violare, sia pure in modo inconsapevole.

Vero, ci sono sport e sport: ma il problema è anche il numero degli fruitori.

Eppure, guai a sottolineare soltanto i danni che esso può provocare alla fauna e alla tranquillità dei luoghi, se non alla loro estetica.

Lo sport può fare grandi danni alla conservazione.  

Ma gli sportivi lo sanno?

L’ecoturismo.

Lo si vorrebbe sempre positivo e utile.

Ma non è così.

Il numero e i modi dei turisti sono questioni da affrontare con serietà, battendo il pregiudizio che chi va in natura sia per definizione buono, educato, gentile, innamorato della natura oppure se non lo è … lo divenga.

Potrebbe forse diventarlo qualora gli venissero create delle difficoltà educanti e non gli si facilitasse la fruizione, fisicamente e psicologicamente.

Ma questo non va bene, dicono i ben pensanti: la natura deve essere resa aperta a tutti.

Con il risultato della sua banalizzazione, se non della sua morte.

I benpensanti infatti vorrebbero una natura addomesticata, una collana di parchi urbani, sicuri e tranquillizzanti.

Invece è necessario accentuare le differenze fra natura e città, con tante zone intermedie a naturalità crescente e rendere la prima sempre più selvaggia e inaffidabile.  

Se vogliamo conservare.

L’animalismo.

Quello di battaglia aborre la gestione faunistica.

E non desidera la zootecnia o gli animali di affezione: gli animali non devono essere utilizzati per finalizzati per finalità umane, è la sua tesi.

Ma con non pochi sconti, a livello privato.

Eppure, a livello pubblico, l‘animalismo vorrebbe gli animali selvatici tutti intangibili, se non accudibili, come i domestici.

Parlo dell’animalismo aggressivo, non quello di un normale cittadino che ha, ben per lui, un cane, un gatto e un canarino.

Ma gli integralisti affermano che non bisogna fare nulla nei confronti del selvatici, costi quel che costi, anche perché a loro non costa proprio nulla.

Quindi, l’animalismo clericale è anch’esso contro la conservazione.

Eppure non gode della cattiva fama che dovrebbe.

Questi buoni sentimenti o se si vuole normali modi di pensare e cioè la lotta contro l’invecchiamento della popolazione e l’abbandono della montagna, la tecnologia salvifica, la sicurezza (in natura), lo sport (sempre in natura) e l’ecoturismo sempre utili o almeno innocui nonché l’animalismo (come partito) sono tanto più nefasti e nemici della conservazione quanto più sono valutati positivamente o senza una rigorosa critica.

Giudizi sommari, quelli che ho formulato?

So bene quali siano le differenze e quante siano le eccezioni.

Un po’ di buon senso ci vuole sempre e volutamente ho estremizzato i problemi.

Ma se i nostri concittadini non faranno un esame approfondito dei pericoli che corre la conservazione, mettendo a fuoco e riconsiderando le proprie passioni, sarà la fine.

Della natura vera, che io, almeno, vorrei: quella selvaggia, la Wilderness.

Una natura impegnativa esige una vigilanza continua, anche perché volgere altrove la mente potrebbe avere costi troppo alti (Roberto Casati).

Ma a molti piace invece una costante dispersione dell’attenzione, in cambio di mediocri e  rassicuranti piaceri, aggiungo io.

Per conservare devono cambiare anche le idee.

E, come si dice, “fare ordine in casa propria” cioè nei nostri pregiudizi, rinunciando alla pigrizia.

La più pericolosa, quella mentale. 

 

(Articolo di Franco Perco, pubblicato con questo titolo il 22 novembre 2027 sul sito online “greenreport.it”)

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