Quel che il Ministro Salvini è obbligato a non ignorare e che dovrebbero sapere tutti gli italiani che vogliono ragionare con la propria testa

 

«Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione.»

Con questa formula rituale anche il Ministro degli Interni Matteo Salvini il 1 giugno del 2018 ha prestato giuramento davanti al Presidente della Repubblica.

Si è conseguentemente obbligato a rispettare anche il 1° comma dell’art. 117 della Costituzione che dispone testualmente: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».

La suddetta disposizione è coordinata al precedente art. 10 della Costituzione che stabilisce testualmente: «L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.

Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.

Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.»

La nostra Costituzione impone dunque alle leggi italiane di uniformarsi agli obblighi sottoscritti in sede internazionale.

Questi “obblighi” sono i seguenti, elencati in ordine cronologico.

Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati

Conosciuta anche come la Convenzione di Ginevra sullo stato dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 e ratificata dallo Stato italiano con la legge n. 722 del 24 luglio 1954 : è un trattato multilaterale delle Nazioni Unite che definisce chi è un rifugiato e definisce i diritti dei singoli che hanno ottenuto l’asilo e le responsabilità delle nazioni che garantiscono l’asilo medesimo.

La convenzione stabilisce anche quali persone non si qualificano come rifugiati, ad esempio i criminali di guerra.

La convenzione prevede anche la possibilità di viaggiare senza visto per i titolari di documenti di viaggio rilasciati ai sensi di questa Convenzione.

La convenzione si basa sull’articolo 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, che riconosce il diritto delle persone a chiedere l’asilo dalle persecuzioni in altri paesi.

Un rifugiato può godere di diritti e benefici in uno stato in aggiunta a quelli previsti dalla convenzione.

Convenzione Internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare

La Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, nota anche semplicemente come SOLASacronimo di Safety of life at sea, è un accordo internazionale elaborato dalla Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), che è stato adottato a Londra il 1 novembre 1974 e ratificato poi dallo Stato italiano con la Legge n. 313 del 23 maggio 1980.

L’art. VI della legge 313/1980 è dedicato al “Trasporto di persone in caso di emergenza” e dispone testualmente: «a) Al fine di assicurare l’evacuazione di persone per sottrarle ad una minaccia alla sicurezza della loro vita, un Governo contraente può autorizzare il trasporto sulle proprie navi di un numero di persone superiore al numero permesso in altre circostanze dalla presente Convenzione.

b) Un’autorizzazione di tale natura non priva gli altri Governi contraenti del diritto di controllo ai termini della presente Convenzione su tali navi, allorché esse toccano i loro porti.»

Convenzione sulla ricerca e il salvataggio marittimo  

Nota anche semplicemente come: SARacronimo di search and rescue) è finalizzata a tutelare la sicurezza della navigazione mercantile, con esplicito riferimento al soccorso marittimo: è stata siglata ad Amburgo il 27 aprile 1979, entrata in vigore il 22 giugno 1985 e ratificata dallo Stato Italiano dapprima con la legge.147 del 3 aprile 1989 e poi con il DPR n. 662 del 28 settembre 1994, con cui è stato emanato il suo Regolamento di Attuazione.

L’art. 2 stabilisce che «l’autorità nazionale responsabile dell’esecuzione della convenzione è il Ministro dei trasporti e della navigazione» e non quindi il Ministro dell’Interno.

Il successivo art. 3 «stabilisce che:

a) il Comando generale del Corpo delle capitanerie di porto e l’organismo nazionale che assicura il coordinamento generale dei servizi di soccorso marittimo (I.M.R.C.C. – Italian Maritime RescueCoordination Center);

b) le direzioni marittime costituiscono i centri secondari di soccorso marittimo (M.R.S.C. – Maritime Rescue Sub Center);

c) i comandi di porto costituiscono le unità costiere di guardia;

d) le unità navali e gli aeromobili del servizio di guardia costiera del Corpo delle capitanerie di porto, appositamente allestiti, costituiscono le unità di soccorso marittimo.»

I successivi articoli disciplinano le forme e le modalità del salvataggio marittimo.

Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare

la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, nota anche semplicemente come  UNCLOS acronimo del nome in inglese United Nations Convention on the Law of the Sea, è un trattato internazionale che definisce i Diritti e le responsabilità degli Stati nell’utilizzo dei mari e degli oceani, definendo linee guida che regolano le trattative, l’ambiente e la gestione delle risorse minerali.

La Convenzione è stata firmata a Montego Bay in Giamaica il 10 dicembre 1982 con accordo di applicazione della parte XI della convenzione stessa, con allegati, fatto a New York il 29 luglio 1994: è stata ratificata dallo Stato Italiano con  la Legge n. 689 del 2 dicembre 1994.

L’UNCLOS, fra le altre cose, definisce le acque internazionali quindi non più “terra di nessuno” ma di proprietà di tutti, di conseguenza l’Assemblea delle Parti traccia le regole per l’utilizzo o la regolamentazione delle attività.

Definisce fra l’altro il significato di “passaggio inoffensivo” attraverso il proprio mare territoriale, riguardo al quale l’art. 21 dispone che «lo Stato costiero può emanare leggi e regolamenti, conformemente alle disposizioni della presente Convenzione e ad altre norme del diritto internazionale» in merito fra l’altro anche alla «prevenzione di violazioni delle leggi e regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione dello Stato costiero.»

La Convenzione pone i limiti delle varie aree marine identificate, misurate in maniera chiara e definita a partire dalla cosiddetta linea di base.

La linea di base, detta così in quanto base di partenza per la definizione delle acque interne e delle acque internazionali, si definisce una linea spezzata che unisce i punti notevoli della costa, mantenendosi generalmente in acque basse, ma laddove la costa sia particolarmente frastagliata o in casi in cui delle isole sono molto vicine alla costa, la linea di base può tagliare e comprendere ampi tratti di mare.

Le aree identificate dall’UNCLOS sono le seguenti (vedi immagine in testa):

Acque interne ossia lo spazio di mare all’interno della linea di base.

In quest’area vigono in maniera vincolante le leggi dello Stato costiero che regola l’uso delle risorse e il passaggio delle navi.

Acque territoriali che comprende lo spazio di mare compreso dalla linea di base alle 12 miglia nautiche.

In quest’area vigono comunque le leggi dello Stato costiero ma all’interno delle acque territoriali esiste il diritto di ogni imbarcazione al cosiddetto passaggio inoffensivo.

Arcipelaghi. Le acque interne degli Stati comprendenti arcipelaghi sono identificate tracciando una linea di base che unisce i punti più esterni delle isole più esterne, qualora questi punti siano ragionevolmente vicini fra loro.

Zona contigua. La zona contigua si estende dal mare territoriale non oltre le 24 miglia nautiche dalla linea di base.

In quest’area lo Stato costiero può sia punire le violazioni commesse all’interno del proprio territorio o mare territoriale sia prevenire le violazioni alle proprie leggi o regolamenti in materia doganale, fiscale, sanitario e di immigrazione.

Ciò rende la zona contigua una hot pursuit area.

Zona economica esclusiva. Anche nota con l’acronimo ZEE, è l’area di mare che si estende per 200 miglia nautiche dalla linea di base in cui lo Stato costiero può esercitare il diritto di sfruttamento esclusivo delle risorse naturali.

Tale principio nasce per dare un freno allo sfruttamento indiscriminato della pesca anche se, con le nuove tecnologie che consentono di perforare alla ricerca di petrolio in acque molto profonde, è stata recentemente utilizzata anche per lo sfruttamento estrattivo minerario esclusivo.

Piattaforma continentale. La piattaforma continentale è considerata come il naturale prolungamento del territorio di uno Stato, il quale può quindi sfruttarne le risorse minerarie o comunque non-viventi in maniera esclusiva.

La piattaforma continentale può superare le 200 miglia nautiche ma non eccedere le 350, o può essere calcolata misurando 100 miglia nautiche dallisobata dei 2.500 metri.

Convenzione di Dublino

La Convenzione sulla determinazione dello stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli stati membri delle Comunità Europee, comunemente conosciuta come Convenzione di Dublino, è un trattato internazionale multilaterale in tema di diritto di asilo.

Il “sistema di Dublino” è stato istituito dalla omonima Convenzione, firmata a Dublino (Irlanda) il 15 giugno 1990 quando era al potere l’ultimo governo di Giulio Andreotti, l’Andreotti VI (ministro degli esteri Gianni De Michelis, Psi, ministro dell’interno Vincenzo Scotti, Dc).

All’epoca non solo non c’erano barconi di migliaia di uomini lanciati quotidianamente verso le coste dell’Italia, ma non esisteva neppure il concetto dell’entrata libera in un paese senza passare dall’ufficio passaporti e dal visto del paese ricevente: il “sistema di Dublino” è entrato in vigore il successivo 1 settembre 1997 .

Il principio che ha legato fino ad oggi il migrante al paese di primo approdo risale dunque al 1 settembre 1997, quando è entrata in vigore l’originaria Convenzione di Dublino.

Quell’anno in Italia era giunta un’ondata di migranti albanesi (scatenata dallo scandalo finanziario delle «piramidi») che per la prima volta non fu respinta dal governo dell’epoca, il Romano Prodi I (ministro degli interni Giorgio Napolitano, ministro degli esteri Lamberto Dini), ma lasciata sostanzialmente sulle spalle della Caritas e delle parrocchie, prevalentemente pugliesi.

Quella prima convenzione firmata a Dublino stabiliva una serie di criteri di assegnazione ai vari paesi dei richiedenti asilo in possesso di documenti, poi diceva cosa fare nei confronti degli irregolari.

L’art. 6 della Convenzione stabilisce infatti che «se il richiedente l’asilo ha varcato irregolarmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da uno Stato non membro delle Comunità europee, la frontiera di uno Stato membro, e se il suo ingresso attraverso detta frontiera può essere provato, l’esame della domanda di asilo è di competenza di quest’ultimo Stato membro».

Il successivo art. 6 stabilisce che «ogni Stato membro, …, può esaminare per motivi umanitari, in particolare di carattere familiare o culturale, una domanda di asilo a richiesta di un altro Stato membro, a condizione tuttavia che il richiedente l’asilo lo desideri

All’epoca era una norma di semplice buon senso, c’erano ancora le frontiere anche all’interno dell’Europa, figuriamoci se si poteva entrare tranquillamente dall’esterno, tant’è vero che proprio quel governo lì fece fronte l’anno dopo al primo monumentale sbarco degli albanesi in Puglia.

Era l’agosto 1991 e il Viminale dispose un ponte aereo che in una sola notte riportò in Albania 17.467 persone arrivate in Puglia sei giorni prima, con l’impiego di 3 mila uomini e l’intera 46esima aerobrigata, in tandem con l’Alitalia.

Il Regolamento di Dublino II è stato firmato invece nel 2003 dal governo Berlusconi (ministro degli interni Giuseppe Pisanu, ministro degli esteri Gianfranco Fini): si basava sul precedente documento, che si chiamava non Trattato ma Convenzione di Dublino.

A questo il trattato firmato dal governo di centrodestra aveva aggiunto l’obbligo di prendere le impronte digitali: sono servite a creare per la prima volta una banca dati ottenendo così l’emersione di identità e pratiche multiple.

Il vigente Regolamento di Dublino (formalmente chiamato “Regolamento UE n. 604 del 26 giugno 2013” oppure Regolamento di Dublino III) stabilisce “i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide (rifusione)“, nell’ambito della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e la relativa direttiva UE.

Il trattato di Dublino III è stato siglato nel 2013 perché quello precedente aveva una scadenza: dieci anni: è stato firmato dal governo di Enrico Letta (ministro degli interni Angelino Alfano, ministro degli esteri Emma Bonino) e ribadisce il principio di responsabilità permanente del paese di primo approdo dei migranti, definendolo «una pietra miliare».

Le ultime «fonti» del diritto sono poi due leggi italiane.

Codice della Navigazione

Il Codice della Navigazione regolamenta e disciplina la navigazione, marittima, interna ed aerea, nelle acque territoriali e nello spazio aereo sotto la sovranità della Repubblica Italiana.

Le funzioni di polizia e vigilanza per le attività marittime sono generalmente esercitate dal Corpo delle capitanerie di porto – Guardia costiera e dall’Ente nazionale per l’aviazione civile per le attività aeree.

È stato approvato con Regio Decreto n. 327 del 30 marzo 1942, ma poi modificato dal D.Lgs. n. 221 del 29 ottobre 2016 e dalla legge n. 230 del 1 dicembre 2016.

L’art. 1113 riguarda la “Omissione di soccorso” e dispone che «chiunque, nelle condizioni previste negli articoli 70, 107, 726, richiesto dall’autorità competente,omette di cooperare con i mezzi dei quali dispone al soccorso di una nave, di un galleggiante, di un aeromobile o di una persona in pericolo ovvero all’estinzione di un incendio, è punito con la reclusione da uno a tre anni.»

Disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero 

Approvate dal Decreto Legislativo n. 286 del 25 luglio 1998, così come modificato dal Decreto Legge n. 113 del 4 ottobre 2018, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 132 del 1 dicembre 2018, n. 132 e da ultimo, dal Decreto-Legge n. 53 del 14 giugno 2019 (cosiddetto “Decreto Sicurezza Bis).

L’art. 10-ter riguarda le “Disposizioni per l’identificazione dei cittadini stranieri rintracciati in posizione di irregolarità sul territorio nazionale o soccorsi nel corso di operazioni di salvataggio in mare” e dispone testualmente: «Lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell’ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all’articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142

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Per avere un quadro più completo occorre fare chiarezza sulla definizione delle seguenti parole che caratterizzano il dibattito sui flussi migratori.

A volte infatti vengono fornite cifre esatte abbinate a termini sbagliati, rendendo così l’informazione non corretta. Vediamo quindi alcune parole da tenere presenti quando parliamo di fenomeno migratorio.

Migrante irregolare

Si tratta di una persona che entrata nel paese senza un regolare controllo alla frontiera, oppure che è arrivata regolarmente ma a cui è scaduto il visto o il permesso di soggiorno.

Richiedente asilo

Si definisce così una persona che ha richiesto di essere riconosciuto come rifugiato (o altra forma di protezione) e che è in attesa del responso.

I richiedenti asilo solitamente entrano nel territorio in modo irregolare, ma dal momento in cui presentano la richiesta sono regolarmente soggiornanti, e quindi non possono essere definiti clandestini.

Profugo

Un profugo è una persona scappata per ragioni di sopravvivenza, solitamente a causa di guerre o conflitti, ma che non rientra nella categoria di rifugiato.

Spesso il profugo è interno, ovvero nel suo stesso paese.

Rifugiato (Unhcr)

In termini generici il rifugiato è una persona che è scappata dal proprio paese per cercare protezione in un altro.

L’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni unite (Unhcr) riconosce come rifugiati coloro che rientrano nei criteri stabiliti dal loro statuto.

Questi sono dunque titolari della protezione che l’agenzia Onu può offrirgli.

Altra cosa è il riconoscimento dello status di rifugiato da parte di un paese membro della convenzione di Ginevra del 1951.

Status di rifugiato

È la prima e più importante forma di protezione internazionale, e può essere riconosciuta a un richiedente asilo da uno stato membro della convenzione di Ginevra del 1951.

La convenzione definisce il rifugiato come: «[…] chiunque, nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato.»

Protezione sussidiaria

È anche questa una forma di protezione internazionale, prevista dal diritto dell’Unione europea e di conseguenza da quello Italiano.

Si tratta di una protezione aggiuntiva che viene riconosciuta a chi non rientri nella definizione di rifugiato.

Il decreto legislativo 251/07 definisce il titolare di protezione sussidiaria come una persona: «[···] nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, […] correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese. »

Il danno grave definito dal decreto si configura nel caso in cui il richiedente abbia subito una condanna a morte, sia stato vittima di tortura o altra forma di pena o trattamento inumano, abbia subito la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato.

Protezione umanitaria

Questa era una forma di protezione nazionale, prevista dall’ordinamento italiano nel testo unico sull’immigrazione.

Veniva concessa nel caso in cui, pur in assenza di requisiti per accedere alla protezione internazionale, fossero comunque presenti seri motivi umanitari tali da rendere la persona meritevole di tutela.

Questa forma di protezione è stata abrogata con il decreto sicurezza a ottobre del 2018, ed è stata sostituita con nuove ipotesi di rilascio di permessi di soggiorno per protezione speciale o casi speciali.

Clandestini

Il termine non esiste né nelle definizioni internazionali né nel Diritto dell’Unione europea.

Si è diffuso in Italia da quando la legge Bossi-Fini introdusse alcune disposizioni contro le immigrazioni clandestine.

Si distingue dalla migrazione irregolare in quanto riguarda solo coloro che abbiano violato le regole sull’ingresso nel territorio e non abbiano alcun titolo legale per rimanervi.

Dunque non riguarda né i richiedenti asilo né chi l’asilo l’ha ottenuto.

Migrante economico

È una persona che si è spostata dal suo paese di origine per migliorare le sue condizioni di vita, cercando un lavoro.

Il termine viene spesso usato per distinguerli dai rifugiati.

Migrazione forzata

Si tratta di una migrazione che deriva da una minaccia alla propria sopravvivenza, indipendentemente che sia causata dall’uomo o da fenomeni naturali.

Il migrante forzato oggi non è riconosciuto internazionalmente alla stregua di un rifugiato, tuttavia il tema è sempre più all’ordine del giorno, soprattutto a causa del cambiamento climatico.

Lo studio più noto parla di 200 milioni di “migranti ambientali” entro il 2050, ma l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) considera stime che variano dai 25 milioni a 1 miliardo di potenziali migranti ambientali.

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Profili di criticità del Decreto Sicurezza Bis

Il 15 giugno 2019 è entrato in vigore il decreto legge n. 53/2019, noto alle cronache come “decreto sicurezza-bis” in ragione della sua ideale continuità con il decreto legge n. 113/2018 (conv. con modif. in legge n. 132/2018), pure recante misure in materia di immigrazione e sicurezza pubblica, a sua volta noto come “decreto Salvini”.

Il testo è ora all’esame del Parlamento per la conversione in legge entro il termine di sessanta giorni.

Pur senza entrare nel merito delle scelte politiche effettuate dal Governo, non passano inosservati alcuni profili di criticità.

La costituzionalità del decreto

Analogamente a quanto è stato osservato rispetto decreto n. 113/2018, anche questo nuovo intervento risulta ispirato da finalità tra loro eterogenee, tenute insieme soltanto da generici riferimenti all’ordine pubblico ed alla sicurezza pubblica, che proprio per la loro intrinseca vaghezza non soddisfano i requisiti di specificità ed omogeneità stabiliti per la decretazione d’urgenza dall’art. 15, comma 3 della legge n. 400 del 1998.

Sebbene tale previsione, possedendo lo stesso rango del decreto legge, non possa costituirne parametro di legittimità in senso stretto, nondimeno la Corte Costituzionale ha posto in evidenza la sua rilevanza nell’ambito del sindacato sui presupposti fattuali di straordinaria necessità ed urgenza ex art. 77 Cost.: la sussistenza di questi ultimi, infatti, deve essere verificata rispetto alla ratio unitaria del decreto legge, ossia alla luce della sua proiezione finalistica a fronteggiare situazioni la cui ricorrenza soltanto giustifica l’eccezionale potere governativo di esercitare la funzione legislativa senza previa delegazione del Parlamento (C. cost. n. 22/2012, considerato in diritto n. 3.3).

Al riguardo Gonnella ha dichiarato: “La corte costituzionale già nel 2014 ha specificato che sin dal titolo e poi nell’articolazione del decreto ci deve essere una omogeneità nel contenuto, non si possono mettere insieme cose che hanno poco a fare l’una con l’altra.

In questo caso ci sono norme che hanno a che fare con l’immigrazione, norme che hanno a che fare con la riforma del codice penale e poi ci sono norme sulla sicurezza alle Universiadi di Napoli.

Stiamo costruendo un decreto legge scriteriato, disomogeneo e quindi per vizi formali illegittimo.

Ebbene, appare oggettivamente difficile sostenere che, rispetto alle menzionate generiche finalità di tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico, il Governo si trovasse nella necessità di adottare misure talmente urgenti da risultare incompatibili con il normale svolgimento dell’iter legislativo parlamentare.

Lo confermano, anzitutto (e paradossalmente), le stesse parole pronunciate dal Ministro dell’Interno proponente, il quale, in sede di conferenza stampa immediatamente successiva al Consiglio dei Ministri che ha approvato il decreto (clicca qui per accedere al video), ha evidenziato che, sulla base dei dati in possesso al Viminale, si registra attualmente un’importante riduzione degli sbarchi di stranieri irregolari, delle richieste di asilo politico, e delle presenze nei centri per l’immigrazione sul territorio.

Lo confermano, inoltre, i dati dello stesso Ministero dell’Interno sulla diminuzione dei reati che normalmente destano allarme sociale (quali furti, rapine e omicidi); dati che allineano il nostro paese alle statistiche dei Paesi europei comunemente ritenuti sicuri.

Il decreto in esame appare dunque adottato in un contesto nel quale si fatica davvero a ravvisare gli indici fattuali di quel deficit di “sicurezza” e “ordine pubblico” che il preambolo individua quale ratio giustificatrice dell’intervento, e che soli potrebbero giustificare la posticipazione dell’intervento parlamentare alla fase della conversione in legge.

Senza contare il rischio – già concretizzatosi nel caso del decreto n. 113/2018 – che il ruolo del Parlamento si riduca un mero voto di fiducia, con il risultato ultimo di azzerare completamente il dibattito politico attorno ad interventi normativi destinati ad incidere profondamente sui diritti fondamentali.

Alla luce di quanto osservato, in conclusione, appare prospettabile una questione di legittimità costituzionale del decreto in esame per violazione dei requisiti di legittimità della decretazione d’urgenza fissati dall’art. 77 Cost.; e ciò, si badi, a prescindere dall’eventuale tempestiva conversione in legge, atteso che su quest’ultima si trasferirebbe l’illegittimità del decreto, sub specie di vizio in procedendo (C. cost. n. 171/2007, considerato in diritto n. 5).

Il soccorso in mare

A tal fine l’art. 1 modifica l’art. 11 del T.U. immigrazione, disposizione quest’ultima recante misure sui controlli alle frontiere, introducendo il seguente nuovo comma 1-ter:

Il Ministro dell’interno, Autorità nazionale di pubblica sicurezza ai sensi dell’articolo 1 della legge 1° aprile 1981, n. 121, nell’esercizio delle funzioni di coordinamento di cui al comma 1-bis e nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia, può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero quando si concretizzano le condizioni di cui all’articolo 19, comma  2, lettera g), limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, della  Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, ratificata dalla legge 2 dicembre 1994, n. 689. Il provvedimento è adottato di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, secondo le rispettive competenze, informandone il Presidente del Consiglio dei ministri.

La norma conferisce al Ministro dell’Interno – di concerto con i Ministri della difesa e dei trasporti, e informato (ma non “sentito”), il Presidente del Consiglio – il potere di emanare provvedimenti volti a vietare o limitare l’ingresso, il transito o la permanenza nelle acque territoriali di navi (escluse quelle militari o in servizio governativo non commerciale), laddove ricorrano due ordini di presupposti alternativi:

I)“motivi di ordine e sicurezza pubblica”;

ii)concretizzazione delle condizioni di cui all’art. 19, comma 2, lett. g) della Convenzione di Montego Bay, norma che a sua volta individua, quale ipotesi di passaggio non inoffensivo (o “pregiudizievole”) di nave straniera nelle acque territoriali, il caso in cui tale nave effettui “il carico o lo scarico di […] persone in violazione delle leggi di immigrazione vigenti nello Stato costiero.

La formulazione del nuovo comma 1-ter richiama almeno in parte testualmente i contenuti delle direttive recentemente emanate dal Ministro dell’Interno nell’ambito della c.d. politica dei “porti chiusi”.

Si tratta dei discussi provvedimenti che, proprio invocando l’esigenza di ordinata gestione dei flussi migratori, nonché quella correlata di impedire passaggi di navi pregiudizievoli ai sensi del diritto del mare, avevano istruito le autorità incaricate della sorveglianza delle frontiere marittime nel senso di negare l’ingresso a chiunque avesse svolto «un’attività di soccorso […] con modalità improprie, in violazione della normativa internazionale sul diritto del mare e, quindi, pregiudizievole per il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero in quanto finalizzata all’ingresso di persone in violazione delle leggi di immigrazione».

A questa prima direttiva di portata “generale” avevano fatto seguito ulteriori direttive aventi ad oggetto l’operato di singole ONG, ritenute responsabili di condotte descritte in termini di “possibile strumentalizzazione degli obblighi internazionali in materia di search and rescue”; o ancora di “cooperazione ‘mediata’ che, di fatto, incentiva gli attraversamenti via mare di cittadini stranieri non in regola con il permesso di soggiorno e ne favorisce obiettivamente l’ingresso irregolare sul territorio nazionale”.

Come è noto, peraltro, la c.d. politica dei “porti chiusi” è stata oggetto di severe critiche da parte dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani.

In particolare, una lettera del 15 maggio 2019 firmata da cinque Special Rapporteur ha evidenziato la sua radicale incompatibilità con gli obblighi derivanti dalle Convenzioni UNCLOS, SOLAS e SAR sul diritto internazionale del mare, nonché con il principio del non-refoulement.

La progressiva inibizione delle attività di soccorso prestate dalle ONG e da altre navi private nel Mediterraneo centrale, infatti, comporta gravissimi rischi per i diritti fondamentali dei migranti, destinati in misura statisticamente sempre maggiore a perdere la vita in un naufragio oppure ad essere recuperati dalla Guardia costiera libica e ricondotti in un Paese dove le detenzioni arbitrarie, la tortura e le violenze sessuali rappresentano una tragica quotidianità.

Tanto premesso, è evidente che gli stessi profili di illegittimità ravvisabili nelle ricordate direttive potranno viziare, oggi, i divieti ministeriali che verranno adottati ai sensi del novellato art. 11-ter del T.U. immigrazione.

L’esistenza di una cornice giuridica di rango primario non cambia, evidentemente, il sistema delle fonti sovranazionali (ratificate dall’Italia) all’interno del quale tali provvedimenti si inseriscono.

Anzi, paradossalmente, la presenza di un espresso riferimento al necessario “rispetto degli obblighi internazionali” renderà più agevole il sindacato per violazione di legge, con eventuale annullamento o disapplicazione in sede giurisdizionale.

La questione è al centro delle cronache proprio nelle ore in cui scriviamo.

A corredo dei poteri ministeriali appena illustrati, l’art. 2 del decreto sicurezza-bis introduce specifiche sanzioni nei confronti dei trasgressori dei divieti di ingresso, transito e sosta.

La disposizione interviene sull’art. 12 del T.U. imm., ossia la fattispecie incriminatrice del c.d. favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, introducendovi un nuovo comma 6-bis, di cui si riporta di seguito il testo:

6-bis. Salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, il comandante della nave è tenuto ad osservare la normativa internazionale e i divieti e le limitazioni eventualmente disposti ai sensi dell’articolo 11, comma 1-ter. In caso di violazione del divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane, notificato al comandante e, ove possibile, all’armatore e al proprietario della nave, si applica a ciascuno di essi, salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 10.000 a euro 50.000. In caso di reiterazione commessa con l’utilizzo della medesima nave, si applica altresì la sanzione accessoria della confisca della nave, procedendo immediatamente a sequestro cautelare. All’irrogazione delle sanzioni, accertate dagli organi addetti al controllo, provvede il prefetto territorialmente competente. Si osservano le disposizioni di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689, ad eccezione dei commi quarto, quinto e sesto dell’articolo 8-bis.”

Nei confronti del comandante, dell’armatore e del proprietario della nave è prevista, anzitutto, una sanzione amministrativa pecuniaria da 10 mila a 50 mila euro  ciascuno.

In assenza di diversa previsione, l’importo deve essere commisurato in base ai criteri generali (art. 11 l. 689/1988) che prescrivono avere riguardo “alla gravità della violazione, all’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche”.

Trova inoltre applicazione, in assenza di disposizioni di segno contrario, la disciplina del pagamento in misura ridotta di cui all’art. 16 l. 689/1981.

È inoltre prevista la sanzione accessoria della confisca della nave, sebbene solo in caso di “reiterazione con l’utilizzo della medesima nave, con immediato sequestro amministrativo. 

Si applicano, in assenza di ulteriori specificazioni, le regole generali sul sequestro cautelare e la confisca amministrativa di cui agli artt. 13, 19 e 20 della legge n. 689/1981.

È invece espressamente esclusa l’applicazione dell’art. 8-bis commi 4, 5 e 6 della stessa legge n. 689/1981.

Ne deriva un trattamento sanzionatorio più severo di quello generale, sotto tre profili:

I)è escluso che le trasgressioni commesse in tempi ravvicinati possano essere considerate unitariamente (comma 4);

ii)è escluso che gli effetti della reiterazione non si applichino nei casi di pagamento in misura ridotta (comma 5);

iii) è escluso che gli effetti della reiterazione possano essere sospesi finché il provvedimento che accerta la violazione precedente sia divenuto definitivo (comma 6).

Sempre con riferimento alla normativa generale in materia di sanzioni amministrative, vengono in rilievo le cause di esclusione della responsabilità di cui all’art. 4 l. 689/1988.

La norma ribadisce quanto già si può evincere dai principi generali, ossia che non risponde della violazione “chi ha commesso il fatto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima ovvero in stato di necessità o di legittima difesa”.

Trattasi di una serie di condizioni che, come dimostra la prassi giudiziaria relativa all’art. 12 T.U. imm., sono suscettibili di presentarsi con altissima frequenza nella materia in esame.

Cominciando dall’adempimento di un dovere, vengono in rilievo le norme di diritto internazionale (in primis l’art. 98 della Convenzione di Montego Bay e l’art. 10 della Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il salvataggio marittimo) che obbligano il comandante della nave a salvare le persone in pericolo ed a condurle, senza esporli ad ulteriori rischi, presso un place of safety, ossia un luogo dove il rispetto dei diritti fondamentali è garantito.

Nella casistica è venuto altresì in rilievo lo stato di necessità, che ha portato i giudici ad escludere la responsabilità dei soccorritori ed allo stesso tempo affermare quella degli scafisti veri e propri, i quali avevano deliberatamente posto i migranti su un’imbarcazione inidonea a compiere l’ultima parte della traversata, strumentalizzando così l’attività di soccorso e pertanto dovendo rispondere dell’ingresso irregolare secondo lo schema dell’autorità mediata.

Da ultimo, perfino la legittima difesa è stata riconosciuta in capo ad alcuni migranti che si erano ribellati alla decisione del comandante, presa sulla base delle indicazioni del centro di coordinamento marittimo italiano, di ricondurli in Libia, esponendoli così al pericolo attuale di offese ingiuste per la vita e l’integrità fisica.

Conviene peraltro evidenziare, a conclusione di questa breve rassegna, che, laddove sussistano i presupposti delle indicate cause di giustificazione, sarà la stessa “tipicità” della violazione amministrativa a venire meno, dovendosi infatti in tal caso considerare illegittimo, per le ragioni sopra illustrate (violazione del non-refoulement e degli obblighi internazionali di diritto del mare), il provvedimento ministeriale di divieto di ingresso che ne ha costituito il presupposto.

Secondo i giuristi la parte che rimane in ogni caso problematica è quella che prevede che sia lo stesso ministro dell’interno a “limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale per motivi di ordine e sicurezza”.

Per i giuristi, al di là del fatto che questo articolo è in contrasto con le norme che regolano il soccorso in mare, si registra il tentativo di portare sul piano amministrativo quello che è un problema di ordine penale e che quindi è di competenza della magistratura.

Per Gianfranco Schiavone dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) “il problema è che il ministro dice di poter vietare l’ingresso in acque italiane quando c’è una violazione delle leggi sull’immigrazione ed evidentemente si riferisce al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che però è un reato penale e per essere accertato deve essere oggetto d’indagine da parte di una procura.

Su che base un prefetto deciderà che c’è stata una violazione di una norma nazionale sull’immigrazione?”.

A questo si aggiunge che, nel caso di soccorso in mare, il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è difficilmente imputabile a una nave umanitaria che ha soccorso in mare persone che erano in uno stato di necessità.

Lo scopo è quello di aggirare le procure, procedere per via amministrativa bloccando le navi e i soccorsi.

Il ministero sa benissimo che queste sono misure che vanno contro la legge e non possono durare a lungo”, conclude Schiavone.

Riforma del codice penale e norme sulla sicurezza

Un’attenzione a sé merita la clausola “salve le sanzioni penali quando il fatto costituisca reato, che precede l’enucleazione delle sanzioni amministrative poc’anzi illustrate.

Tale disposizione potrebbe essere interpretata sia come clausola di riserva, volta cioè ad escludere l’applicabilità dell’illecito amministrativo quando sussistono i presupposti di un reato (verosimilmente, quello di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare ex art. 12 T.U. imm.); sia, al contrario, come clausola che sancisce l’applicabilità congiunta delle sanzioni amministrative e penali, in deroga al principio di specialità di cui all’art. 9 della legge n. 689/1981.

È verosimile che quest’ultima sia la soluzione ermeneutica corretta, alla luce tanto della volontà del legislatore (che è quella arricchire il ventaglio degli strumenti di contrasto agli ingressi irregolari, e non certo di depenalizzare alcune condotte), quanto della formulazione letterale della norma, sensibilmente diversa dalle classiche clausole di sussidiarietà (“salvo che il fatto costituisca reato”).

L’obiettivo della disposizione sembrerebbe dunque quello di assicurare la congiunta applicazione delle sanzioni amministrative e penali, laddove ne ricorrano i rispettivi presupposti.

Sennonché, se vediamo correttamente, tale duplicazione sanzionatoria si porrebbe in conflitto con il divieto di bis in idem, sancito dall’art. 649 c.p.p., nonché, e per quanto maggiormente rileva in questa sede, dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dall’art. 4 Prot. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Sebbene la complessità del tema meriti senz’altro un’attenzione maggiore di quella che è possibile dedicarle in questo primo commento, pare comunque possibile fornirne un primo inquadramento.

Il nodo centrale della questione riguarda la natura delle nuove sanzioni introdotte per i trasgressori del divieto di ingresso, transito o permanenza nelle acque territoriali.

Come è noto, infatti, anche quando il legislatore opta espressamente per la natura “amministrativa” di un illecito (come nel caso che ci occupa), ciò non preclude che l’interprete debba – ricorrendone i presupposti – procedere alla sua riqualificazione in senso penale.

Ciò accadrà, in particolare, ogniqualvolta l’interprete ritenga, sulla scorta dei criteri enucleati dalla Corte di Strasburgo a partire dal celebre caso Engels, che l’illecito abbia finalità punitiva e/o la relativa sanzione, anche se pecuniaria, si connoti per la sua gravità, sub specie di importanza del relativo sacrificio economico.

Ebbene, ci pare che entrambe tali condizioni siano integrate rispetto alle sanzioni introdotte dal decreto sicurezza-bis, le quali non risultano connotate da finalità riparative o esclusivamente preventive (la prevenzione, tutt’al più, appare perseguita attraverso la deterrenza, come normalmente accade per gli illeciti penali); ed al contempo prevedono pene di importo significativamente superiore a quanto di regola previsto per le sanzioni (autenticamente) amministrative (cfr. l’art. 10 della l. 689/1988, secondo cui “la sanzione amministrativa pecuniaria consiste nel pagamento di una somma non inferiore a euro 10 e non superiore a euro 15.000.

Se tali conclusioni sono corrette – ossia se le sanzioni previste dall’art. 2 del decreto (rectius, dal nuovo comma 6-bis dell’art. 12 T.U. imm.) hanno natura penale al pari di quelle previste dall’art. 12 commi 1, 3-bis e 3-ter – ne deriva che, a fronte del medesimo fatto storico (l’ingresso, il transito o la permanenza nelle acque territoriali, considerato non inoffensivo in ragione della presenza di stranieri irregolari), non appena il procedimento per l’applicazione di una di tali sanzioni sarà divenuto definitivo, l’inizio o la prosecuzione dell’altro saranno incompatibili con il divieto di bis in idem.

Ciò – si badi – anche nel caso in cui il primo procedimento si sia concluso con l’esclusione della responsabilità(ad esempio in ragione della sussistenza delle cause di giustificazione di cui si è detto), il divieto di bis in idem essendo infatti finalizzato a tutelare il diritto fondamentale a non essere giudicati (e non soltanto puniti) due volte per le stesse condotte.

Concludendo sul punto, la possibilità di cumulo tra le sanzioni – ossia l’obiettivo che testualmente sembrerebbe perseguire il legislatore – appare in salita e comunque difficilmente compatibile con i principi generali.

Competenza delle procure distrettuali

Proseguendo nella disamina delle disposizioni del decreto dedicate al contrasto dell’immigrazione irregolare, vengono in rilievo le modifiche apportate dall’art. 3 all’art. 51 c.p.p.: la competenza delle procure distrettuali, finora prevista soltanto per i reati di associazione finalizzata a commettere le ipotesi aggravate di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare di cui ai commi 3 e 3-ter dell’art. 12 T.U. imm., viene ora estesa anche ai casi di associazione finalizzata a commettere la fattispecie “base” di cui al comma 1 dello stesso art. 12 (integrata, come è noto, dalla mera realizzazione di atti diretti a procurare l’ingresso irregolare).

Per effetto della stessa modifica, nell’ambito delle indagini per il reato associativo in questione sarà possibile disporre intercettazioni ex art. 266 co. 2-bis c.p.p.

L’art. 4 del decreto, infine, anche nella prospettiva di potenziare le “attività di contrasto del delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, autorizza una spesa complessiva 3 milioni di euro, spalmata nel triennio 2019-2021, al fine di implementare l’utilizzo dello strumento investigativo delle operazioni di polizia sotto copertura ex art. 9 della legge n. 146/2006.

Contrarie al diritto

L’esperta di diritto del mare dell’università Sacro Cuore di Milano, Francesca de Vittor, spiega che i porti non sono mai stati chiusi: “Se ci atteniamo ai documenti che abbiamo in mano i porti sono aperti, ci sono delle procedure anomale di sbarco ultimamente, ma un atto ufficiale di chiusura dei porti non esiste”.

Per l’esperta, se la nave si trova particolarmente vicina alle coste italiane, oppure quando la centrale operativa che ha coordinato i soccorsi è l’Italia, allora non è strano che sia l’Italia a predisporre un porto di sbarco: “Dopodiché non è escluso che anche altri stati cooperino nelle operazioni di sbarco e di redistribuzione delle persone: l’obbligo dei soccorsi è di tutti gli stati non solo dell’Italia.

Ma questa cooperazione invece non può riguardare la Libia che non è un paese sicuro”, chiarisce.

Secondo De Vittor le due direttive ministeriali di marzo e aprile contro le navi umanitarie che compiono soccorsi in mare sono contrarie al diritto internazionale del mare: “Entrambe le direttive obbligano le navi umanitarie ad attenersi alle indicazioni date dalla guardia costiera libica, tuttavia questo punto è in contrasto con la Convenzione Sar che invece attribuisce al capitano la responsabilità di valutare nella situazione in cui si trova quale sia la scelta migliore per garantire la sicurezza e la salvaguardia della vita umana in mare.

Se le indicazioni chiedono di portare le persone in un porto non sicuro come la Libia, il capitano ha tutte le ragioni di rifiutarsi”.

 

 

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