Sebastijan, il pescatore di turisti: “Sulla mia barca meno pesce ma cucino per tutti. Per salvare il mare”

 

SALI (Croazia) – Mentre l’avvolgitore raccoglie la lunga rete da posta, Sebastijan la districa e la ricompone sul cilindro meccanico che la avvoltola.

Ogni due o tre metri di maglie che emergono dal pelo di un’acqua cristallina, verde come lo smeraldo, estrae qualcosa dall’ordito.

Un San Pietro, un dentice, uno scorfano rosso come il rubino, uno sgombro.

Sulle assi del ponte di prua, finiscono anche una stella marina e un granchio grosso quanto due pugni.

La pesca finisce presto e il conto, il pescatore croato, lo fa a occhio: “Saranno sì e no dieci euro di pesce.

Una volta ne pescavo fino a 300 euro, 50 chili“. 

Sebastijan Raveljic, salopette cerata giallo limone, berretto calcato sugli occhiali da sole che non toglie quasi mai, si siede su una delle panche che ha sistemato sulla sua Lavsa, un barchino lungo dieci passi, stipata di giornalisti.

Racconta che fa il pescatore da 20 anni, ora ne ha 42 e ha praticamente cambiato lavoro: “Portando in giro i turisti lavoro meno e guadagno di più – spiega – e non lavoro di notte“.

Dice che parla cinque lingue, molto bene croato, inglese e italiano “le ho imparate a scuola.

Lo sloveno e il tedesco perché mi piacciono le ragazze“.

La pesca a favore di obiettivo è una dimostrazione di quello che fa ora per campare.

Sebastijan è di Zara ma la Lavsa è ormeggiata nel porticciolo di Sali, un paesello che vive di turismo e d’inverno si spegne, sulla lunga isola, Dugi Otok, stretta striscia di terra parallela alla costa del continente.

Fino a due anni fa, tra le isole calve puntellate di pietra, nelle acque immacolate dell’area marina protetta di Telašcica, la sua attività principale era pescare pesce.

Ma ce n’è sempre meno.

Per questo ha accettato la proposta del Wwf e si è dato al turismo.

Ora sette kune su dieci le fattura così: “Dobbiamo fare anche altro, non possiamo solo pescare – ammette, seduto a tavola, dopo aver cucinato nel suo capanno il pesce appena catturato – altrimenti non ci sarà più pesce e non ci sarà più lavoro“.

Il progetto nel Mediterraneo

Gli operatori croati del Wwf lo definiscono “il nostro campione“.

È così che chiamano i pescatori che per primi accettano di modificare il proprio modo di pescare a favore dell’ambiente.

L’associazione ambientalista è in Croazia nel quadro del 

progetto FishMPABlue2, che coinvolge 13 aree marine protette (Mpa) in tutto il Mediterraneo, come quella di Telašcica.

Capofila dell’iniziativa è l’italiana Federparchi, lungo le coste della nostra penisola sono tre le aree protette di sperimentazione: Torre Guaceto, Egadi e Portofino.

Il progetto coordinato da Federparchi ha l’ambizione di essere un laboratorio di tecniche in qualche modo esportabili – spiega Giampiero Sammuri, Presidente di Federparchi – i pescatori sempre di più si rendono conto che il depauperamento degli stock ittici crea problemi a loro prima di tutto.

Per questo bisogna ragionare su una pesca sostenibile che li mantenga nel tempo ed è allo stesso tempo una garanzia di proseguimento dell’attività lavorativa.

L’obiettivo finale è far sì che, partendo da questa collaborazione, si arrivi a definire concetto di pesca sostenibile anche fuori“.

Cioè nel Mediterraneo.

La co-gestione delle aree protette

L’idea da mettere in pratica è quella della co-gestione: coinvolgere i pescatori nel management dell’area protetta, assieme alle autorità locali e statali.

Per non far calare ordini dall’alto, come quello di interdire alcune zone alla pesca e usare reti più corte, con un solo strato invece di tre, e maglie più larghe.

E proponendo alternative: accanto alla pesca-turismo, c’è l’aiuto nel procacciare fondi europei, accorciare la filiera della vendita, con meno intermediari.

Il Wwf ha comprato ai pescatori nuove reti più selettive, per sostituire quelle vecchie.

E anche i pannelli solari e le protezioni per la barchetta di Sebastijan, così ora è a norma per trasportare turisti.

Il “campione” è quello che dovrebbe convincere anche gli altri a seguirlo.

Perché chi va per mare non ha solo la pelle dura.

Tuttavia non è sempre facile.

A tavola Sebastijan si toglie gli occhiali, potrebbe impersonare il vero duro in un film di Hollywood.

E recita la sua parte: “Non parlo molto con gli altri pescatori, sono una pecora nera – dice – quando dico certe cose, mi vorrebbero appendere a un albero.

Per aderire al progetto e avere le agevolazioni, bisogna essere in regola con le tasse.

E poi bisognerebbe fermare chi pesca come un professionista ma non lo è.

E fa soldi vendendo pesci pregiati ai ristoranti. In nero“.

È difficile mettere in discussione ciò che si fa da una vita, o spesso, che la propria famiglia fa da generazioni: “Se non peschi abbastanza, metti più chilometri di rete, dicono così – spiega Sebastijan – ma di pesce ce n’è sempre meno“.

I piccoli pescherecci sono oltre l’80% della flotta mediterranea.

Impiegano direttamente oltre 137.000 pescatori e generano posti di lavoro per altre 150.000 persone (dati Fao).

Secondo un’analisi della Commissione europea il 93% degli stock ittici del Mediterraneo analizzati è sovrasfruttato, e alcuni sono sull’orlo dell’esaurimento.

Inoltre, il mare nostrum ha perso il 41% dei suoi mammiferi marini e il 34% della popolazione ittica totale negli ultimi 50 anni: “Lo squalo angelo non c’è più nel Mediterraneo, la razza è tra le specie più vulnerabili – riflette Danijel Kanski, altro biologo del Wwf che segue il progetto – ma per i pescatori il pesce è oro.

Sopravvivono perché quando cala ma c’è domanda, il prezzo sale“.

Kanski, un tempo lavorava su grandi pescherecci, prima di vestire la polo col Panda.

Conferma quello che dicono in diversi: sa che qui, d’inverno, non sono rari i problemi di droga nei giovani pescatori rimasti senza occupazione dopo l’estate.

Pescatore di turisti

L’itinerario per turisti di Sebastijan sulla sua Lavsa prevede una uscita dal mattino presto fino a metà pomeriggio.

Si pesca e poi si cucina e si mangiano sgombri, branzini e San Pietro.

Con una pausa per godersi il mare.

Per chi non vuole pescare c’è sempre il tour crociera.

Nel 2019, racconta, ha fatto un centinaio di uscite, ne porta fino a 12 (“ma con sei esco“, il biglietto costa 250 kune, qualcosa in più di 30 euro).

E così con una tradizione secolare alle spalle (“facciamo i pescatori da 750 anni – dice con una punta di orgoglio – qui nel parco abbiamo una casa costruita 250 anni fa”) si è reinventato pescatore di turisti.

Per lui sono stati la salvezza.

Contatta le agenzie per reclamizzare la sua attività (“io non uso internet, è per fighetti, faccio fare a loro“) e nel suo secondo anno ha già visto aumentare di parecchio il suo fatturato.

Lavoro meno e non torno a casa stanco“.

I suoi numeri record del passato sono 600 chili di Palamita e 200 di aragoste: “Ma senza sonar, – rimarca – le ho vendute direttamente al ristorante, nel 2009.

Era il periodo giusto dell’anno, quando ci sono tanti turisti.

Ci avrei potuto comprare una barca nuova“.

Ora Sebastijan sa che i tempi della pesca selvaggia sono finiti.

Ma anche che per ripopolare il mare basta poco.

In due anni, è l’unico che ha accettato di riconvertire in parte la sua attività a Sali.

E spera che altri lo seguano e non teme la concorrenza: “C’è lavoro per tutti d’estate” dice annuendo.

Le “no take zone”

In Croazia il Wwf però può festeggiare un risultato.

Nonostante la diffidenza, dopo due anni di incontri, avvicinamenti, dialoghi e, a quanto pare, animate discussioni, i pescatori hanno accettato le “no take zone“, aree interdette alla pesca.

All’ultimo incontro dell’estate con i pescatori c’è anche Marin Mihanovic funzionario del ministero dell’Agricoltura: “Le no take zone hanno già dato risultati – spiega – 

la Jabuka pit, in mezzo all’Adriatico, è stata istituita nel 2017. E già se ne vedono gli effetti nel ripopolamento di aragoste e merluzzi. Non solo dentro l’area interdetta alla pesca, ma anche fuori“.

Ma la diffidenza non è tipica solo dei dalmati.

Anche in Italia è difficile che venga accettato tutto subito, anzi: “Ovunque c’è ostilità da parte dei pescatori – aggiunge Sammuri – ma l’area protetta, dove il pesce si riproduce, fa da nursery e la maggiore quantità poi si trova anche fuori delle zone tutelate.

A volte è una scelta che richiede anni per essere compresa fino in fondo.

A Torre Guaceto, per esempio, si pesca solo in certe aree in certi giorni e con stcok condivisi.

Ci sono limitazioni sulle specie, le dimensioni, e le dimensioni delle reti.

Per fare una pesca sostenibile e duratura.

E si sta diffondendo la convinzione che questo sia utile.

Perché al dialogo si uniscono i fatti.

Quello che ci chiedono, in cambio, è più rigore nei controlli per chi non rispetta le regole“.

Una preoccupazione condivisa anche dall’altra parte dell’Adriatico.

Mihanovic è venuto alla sala comune di Sali, da Spalato, per ascoltare i pescatori, forse anche per questo la sala comunale è affollata come non lo era stata mai: “Per noi è la prima grande vittoria – racconta Mosor Prvan, croato, biologo di Wwf Adria, all’uscita – quella di aver convinto i pescatori al co-management.

Le no-take zone a Telašcica diventeranno legge entro la fine dell’anno.

E noi continueremo a supportare i pescatori.

Saranno rafforzate le ispezioni nel parco, daremo loro supporto legale con l’Unione europea, anche per trovare fondi e per consulti sul turismo della pesca e la burocrazia“.

La nuova agenda prevede anche il contrasto alla pesca illegale, un museo della pesca e una cooperativa, per essere più forti.

Nonostante i caratteri spigolosi.

All’incontro c’è anche Sebastijan, saluta i giornalisti che sono stati suoi ospiti.

Cala la visiera del cappellino da baseball sugli occhi e se ne va, lungo il molo, prima di tutti gli altri.

 

(Articolo di Matteo Marini, pubblicato con questo titolo il 27 settembre 2019 sul sito online del quotidiano “la Repubblica”)

 

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