Le varietà autoctone italiane nel capestro della nuova normativa fitosanitaria

 

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Claudio Di Giovannantonio,  dirigente Area Tutela Risorse e Vigilanza sulle Produzioni di Qualità ARSIAL – Regione Lazio

In Italia la sottovalutazione delle nuove norme fitosanitarie UE minaccia di bloccare sia l’emersione delle risorse a rischio di erosione genetica, vanificando la loro transizione ad una dimensione di mercato, sia le migliaia di risorse vegetali autoctone, già iscritte ai Registri varietali e pertanto soggette a nuove normative fitosanitarie, incompatibili con la conservazione della loro variabilità genetica.

La nuova normativa fitosanitaria UE

Il 14 dicembre 2019, a tre anni dalla sua adozione, è entrato in vigore il Reg 2016/2031 UE che innova radicalmente la normativa fitosanitaria; il 10 dicembre 2019, con la pubblicazione del relativo Reg. 2019/2072 di esecuzione (1) , è stato completato il quadro delle norme fitosanitarie che, nel dettare le misure contro gli organismi nocivi, innovano radicalmente le condizioni per l’immissione in commercio delle risorse vegetali iscritte ai Registri varietali.

Di particolare importanza, tra le recenti modifiche, le previsioni recate dall’allegato IV, in virtù delle profonde implicazioni che avranno sulle risorse genetiche autoctone: ai fini della commercializzazione del seme e del materiale di propagazione “standard” viene introdotta una soglia di tolleranza pari a zero per  numerosi organismi nocivi non soggetti a misure di quarantena, soglia in precedenza vigente per il solo materiale certificato, derivante da selezione varietale.

L’elemento di assoluta criticità recato dalla nuova normativa è insito nel fatto che l’obbligo del risanamento fitosanitario, in particolare da batteriosi e virosi, presuppone necessariamente un lungo processo di selezione, che dovrebbe essere attivato per oltre il 90% delle migliaia di risorse genetiche vegetali italiane, varietà finora commercializzate come materiale standard, con la più ampia base genetica anche se mai risanate.

Di fatto viene immolata la variabilità genetica sull’altare della sicurezza fitosanitaria, non nei confronti dei patogeni da quarantena, ma di quelli che hanno avuto un millenario processo di coevoluzione con la pianta ospite.

Tale circostanza interdice, di fatto, ogni possibile ipotesi di commercializzazione del seme e del materiale di propagazione di varietà/popolazioni significativamente coltivate su scala regionale e, in molti casi, nazionale (si stima prudenzialmente che l’Italia vanti da sola circa 1/3 di tutta la biodiversità agraria della UE).

La valorizzazione delle varietà vegetali della biodiversità agraria rappresenta un importante fattore di diversificazione produttiva per il comparto agroalimentare italiano.

Non solo: per gli ordinamenti non irrigui delle aree interne, le risorse della biodiversità sono un cardine delle strategie di sviluppo locale, atteso che, con l’ormai definitiva apertura della UE al mercato agroalimentare globale, i costi di produzione delle aziende italiane sono significativamente superiori ai prezzi delle commodity sul mercato internazionale.

Lo spettro delle opportunità correlate alle varietà autoctone non si limita certo alla già decisiva diversificazione:

– dette varietà, nelle migliaia di casi in cui sono alla base dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali censiti dal MiPAAF e delle decine di DO/IG riconosciute dalla UE, concorrono a pieno titolo al Patrimonio Culturale dell’Italia (2) ;

– la migliore applicazione del metodo di produzione biologico (fin dal primo Reg. CEE 2092/91 al nuovo Reg. UE 2018/848, che entra a regime nel 2021), è da sempre incentrata sulla valorizzazione delle risorse autoctone;

– una vasta gamma di servizi ecosistemici è associato alle risorse della biodiversità agraria: dalla gestione sostenibile nelle Aree Natura 2000 (ove la Direttiva Habitat vieta l’introduzione di specie alloctone) fino al ruolo di tali risorse per l’adattamento genetico al global warming o per il contenimento dei consumi idrici in agricoltura.

La biodiversità vegetale per varietà da seme, fruttiferi e vite: separata alla nascita dal  diritto europeo.

La commercializzazione di sementi e materiali di propagazione è stata normata in Europa molto prima che venisse riconosciuto un profilo giuridico internazionale alla biodiversità vegetale: tra il 1966 e il 1970 la CEE adotta una serie di direttive “verticali”, per gruppi di specie  formati in base alla destinazione delle risorse (oleaginose, foraggere, cereali, ortaggi, fruttiferi, ecc.) o per singole specie (barbabietola, patata,  vite).

Anche se aggiornato nel tempo, l’impianto originario di tali normative è tuttora vigente per le varietà vegetali oggetto di commercializzazione indipendentemente dalla loro effettiva diffusione territoriale, dalla scala produttiva, dall’essere il frutto di millenni di interazione tra gli agricoltori e l’ambiente, con evidenti disallinementi nel trattamento delle risorse, in quanto, ad esempio:

1. le varietà da conservazione sono previste solo dalle direttive in materia sementiera e non per fruttiferi e vite;

2. la vigente Direttiva 2008/90 sui fruttiferi offre opportunità di commercializzazione per le risorse della biodiversità (3),  che la Direttiva 68/193/CEE sulla vite non prevede.

E’ evidente, pertanto, che situazioni analoghe sono trattate in maniera radicalmente diversa dalle singole direttive sulla commercializzazione del materiale di propagazione.

Quando interviene la Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD) di Rio de Janeiro del 1992 (4), nonostante l’immediata ratifica UE del 1993 e l’adozione del primo Reg. CE 1467/94 sulla conservazione e valorizzazione delle risorse della biodiversità agraria (5),  che già recava un forte orientamento alla effettiva diversificazione produttiva, non viene mai messo radicalmente in discussione l’impianto generale delle norme di commercializzazione delle varietà vegetali, che in Europa impediscono agli agricoltori la vendita diretta del seme e del materiale di propagazione. 

Con la Direttiva 98/95 del 14 dicembre 1998, a 6 anni dalla CBD di Rio,  viene invece introdotta una segmentazione surrettizia delle sole risorse da seme iscritte ai registri varietali,  tra varietà vegetali oggetto di commercializzazione (che dovrebbero essere ad ampia diffusione) e varietà  a rischio di erosione genetica e pertanto definite da conservazione, per le quali viene consentita la cessione gratuita del seme tra agricoltori, ai fini della conservazione in-situ (6) ; tale impianto giuridico (teso a consolidare il quadro pregresso per le migliaia di risorse autoctone già inserite a catalogo e per la quasi totalità mai oggetto di selezione e risanamento)  non viene più scalfito, neanche dalla successiva ratifica del Trattato FAO del 2001 sulle risorse fitogenetiche. 

Per il recupero delle risorse a rischio di erosione genetica, bisognerà poi aspettare altri 6 anni: solo con il Reg. CE 870/2004, viene materialmente approvato il “Programma comunitario concernente la conservazione, la caratterizzazione, la raccolta e l’utilizzazione delle risorse genetiche in agricoltura” il quale ha comunque ribadito l’impianto della direttiva 98/95 ai fini della commercializzazione delle sementi e dei materiali di moltiplicazione delle specie vegetali. 

Il recupero delle risorse autoctone, che vede l’Italia impegnata sulla scorta della legge 194/2015 e delle numerose leggi regionali, viene finanziato quasi esclusivamente con dotazioni finanziarie recate dai programmi di sviluppo rurale, (anche a seguito delle modifiche introdotte al Reg. UE 1305/2013 con il Reg. 807/2014) con misure che garantiscono alle Regioni la possibilità di destinare risorse ad azioni di recupero, caratterizzazione e valorizzazione di razze animali e varietà vegetali a rischio di erosione genetica, nell’ottica di incentrare piccoli modelli di sviluppo locale su varietà per le quali in ogni caso resta in itinere la normativa nazionale sulla commercializzazione delle sementi e materiale di propagazione delle varietà da conservazione.

Il Trattato FAO sulle risorse fitogenetiche, all’art. 9 prevede che fatta salva la legislazione nazionale, nessuna disposizione del presente articolo comporta una limitazione del diritto degli agricoltori di conservare, utilizzare, scambiare e vendere sementi o materiale di moltiplicazione.

Ebbene, nonostante la legge 6 aprile 2007 n. 46 sia intervenuta sulla legge sementiera (7)  ad oggi MiPAAF e Regioni non hanno definito le condizioni per la vendita delle sementi autoprodotte dagli agricoltori.

In ogni caso, percorsi completamente autonomi andrebbero poi impostati rispettivamente  per i fruttiferi e per la vite.

Ma le contraddizioni non si fermano qui.

Parallelamente alle direttive “verticali” sulla commercializzazione delle varietà vegetali, si consolida a partire dagli anni ‘70 una normazione fitosanitaria che, partendo dalla necessità di contrastare l’ingresso di organismi nocivi associati alla importazione di piante da Paesi extra-UE, introduce “orizzontalmente”, su tutte le risorse, più livelli di certificazione della semente e del materiale di propagazione implementando, accanto alla conformità varietale, una migliore qualità fitosanitaria, anche sull’assenza di organismi nocivi  non soggetti a quarantena ma già presenti negli areali storici di diffusione delle varietà, con le quali tali organismi si erano coevoluti; la qualità della certificazione fitosanitaria viene  associata al livello della selezione varietale (in pratica per il materiale standard non vi era l’obbligo del risanamento, in particolare da funghi, batteriosi e virosi).

Tutto ciò fino alle recenti modifiche, che vanno ad innalzare la soglia della qualità fitosanitaria per le risorse iscritte nei registri varietali.

Una disamina delle problematiche derivanti dalla nuova normazione

Per le risorse autoctone vegetali riveste particolare rilevanza fornire agli agricoltori semi e materiali di moltiplicazione idonei a garantire la migliore rappresentatività del biotipo: secondo la definizione di Harlan, “le varietà locali si configurano come popolazioni soggette, similmente alle popolazioni naturali, all’azione combinata di mutazioni, ricombinazioni, fenomeni di migrazione, deriva genetica e selezione.

Esse sono popolazioni bilanciate, in equilibrio con l’ambiente e con i patogeni, geneticamente dinamiche, ma anche soggette a diversi gradi di selezione attuata dagli agricoltori.”  

Le varietà locali si sono generalmente evolute in condizioni di bassi input agronomici e la diversità genetica che le caratterizza è estremamente utile per una più pronta e adeguata risposta sia ad eventi ambientali estremi sia a cambiamenti nei criteri selettivi.

Per questo esse possono essere efficacemente impiegate nei sistemi agricoli biologici.

Peccato, però, che in decenni di normazione sia sempre prevalso l’orientamento a ricondurre tutte le risorse autoctone a varietà da Direttiva, con l’esito che, in base ai dati pubblicati dal MiPAAF, il numero di varietà attualmente iscritte a Registri Nazionali è di oltre 7.440 per i fruttiferi,  6.146 quelle a Registro Sementi (di cui 4.638 per le agrarie e 1.508 per le ortive),  535 i Vitigni.

Se isoliamo l’universo delle varietà autoctone italiane (8), ci troviamo di fronte ad almeno 7-8.000 risorse presenti nei diversi Registri al solo scopo di poter essere commercializzate come standard e mai risanate: per i fruttiferi, ad esempio, il risanamento interessa ad oggi meno del 5% di tutte le varietà.  

Alcune centinaia, inoltre, sono quelle in corso di caratterizzazione e progressiva iscrizione negli elenchi regionali delle risorse soggette ad erosione genetica in base alle recenti normative nazionali e regionali.

Si comprende, pertanto, che una scelta così radicale sotto il profilo fitosanitario, se mette fuori mercato il grosso delle risorse, non è neutrale neanche per il secondo gruppo, perché nell’ipotesi che alcune di esse suscitassero in futuro un interesse significativo per il mercato, viene comunque innalzata l’asticella per la loro ipotetica valorizzazione, atteso il costo e l’annosità del processo di risanamento imposto al materiale standard.  

In realtà le scelte operate in materia di sicurezza fitosanitaria sembrano non essere state precedute da una reale valutazione dell’impatto della normazione di cui la UE è stata alfiere (9) e che prevede una ampia descrizione dell’impatto ambientale, sociale ed economico, compresi gli impatti sulle piccole e medie imprese e sulla competitività, e una dichiarazione che indichi chiaramente se essi non sono considerati significativi: ebbene come sistema Paese avremmo dovuto segnalarne sicuramente alcuni:

a) Il materiale di moltiplicazione dell’attuale categoria standard deriva comunque da un’accurata selezione massale che rappresenta la metodologia più indicata per il mantenimento della biodiversità intra-varietale.

Questo processo di selezione esclude gli individui della popolazione che presentano sintomi riconducibili ad entità patogene e predilige quelli con buone attitudini fenotipiche;

b) I vivaisti e le case sementiere sono le uniche entità abilitate dalla normativa vigente alla vendita di materiali riproduttivi/di propagazione con certificazione varietale; di fatto, le risorse vegetali a ridotta diffusione ad oggi sono tutte non risanate, e commercializzate come materiali “standard”; in particolare, per le risorse oggetto di moltiplicazione vegetativa, il risanamento implica, in condizioni ottimali, un processo di 10 -12 anni, con investimenti mai inferiori ai 100-120.000 € ed una drastica riduzione della variabilità genetica,  per l’ottenimento di un singolo clone (in pratica i costi di risanamento e selezione per tali risorse superano di decine di volte il fatturato  potenziale, anche di lungo periodo).

La nuova normativa implica un onere molto gravoso, sostenibile solo nel caso in cui la superficie coltivata sia dell’ordine di un migliaio di ettari per singole varietà; alla luce della ridotta superficie degli areali di distribuzione delle risorse autoctone, le nuove prescrizioni avranno un impatto devastante sulle risorse vegetali a ridotta diffusione, ovvero per un ambito ben più ampio dei già numerosi biotipi soggetti ad erosione genetica ed interessati da specifica tutela in ambito nazionale e regionale;  impatto non sufficientemente valutato, e per il quale non si ha al momento evidenza di una preventiva ponderazione degli interessi pubblici in gioco, comunque contemplati da altre normative UE di rango regolamentare, non ultimo il Reg UE 807/2014 che è intervenuto a modificare il Reg 1395/2013 sullo sviluppo rurale, implementandolo con le azioni a tutela della biodiversità agraria, che hanno registrato  migliaia di adesioni su scala regionale.

Tuttavia, non sussistendo alcuna convenienza economica ad attivare il processo di risanamento, i materiali “standard” rischiano di sparire dal mercato e le aziende non potranno più accedere legalmente (secondo il già ribadito impianto delle direttive) a materiale con certificazione varietale, vanificando anche le misure del PSR.

c) Nei rari casi in cui sussista la convenienza economica ad attivare il processo di risanamento che la nuova normativa rende obbligatorio, esso comporta una radicale selezione genetica che, oltre ad essere in contrasto con i principi veicolati dal Reg UE 807/2014 e con la normativa nazionale e regionale in materia di conservazione della biodiversità di interesse agrario, in ogni caso pregiudicherebbe irreparabilmente la preservazione del pool genico della varietà di partenza (valga considerare, ad esempio, la problematica dell’adattamento al  “global warming” che da sola riveste un interesse pubblico altrettanto rilevante, ineludibile nei prossimi anni).

d)   Nell’ipotesi che debba essere il solo sistema pubblico a farsi carico dell’onere del risanamento di tutte le varietà autoctone (ipotesi del tutto teorica,  attesa l’entità degli investimenti necessari, dell’ordine delle decine  di milioni di euro sulla scala di una singola regione,  senza contare i tempi medi ultradecennali della selezione clonale per le arboree, non compatibili né con la ordinaria programmazione finanziaria triennale degli enti pubblici né tantomeno con la programmazione settennale dei fondi strutturali) resterebbe del tutto irrisolto il conflitto tra l’obbligo di garantire la massima rappresentatività del genoma (che discende dai principi di conservazione della biodiversità  in-situ) e l’inevitabile   sacrificio da operare, in particolare nel caso della selezione clonale, conflitto che investe la quasi totalità delle risorse arboree. 

La soglia zero sulla presenza di organismi nocivi, che è stata imposta per il materiale standard prescindendo dalla effettiva scala produttiva delle risorse interessate, è anche tecnicamente discutibile,  in quanto non è chiaro se si riferisca esclusivamente alla presenza di sintomi (indagine visiva) oppure anche alla presenza del patogeno (analisi di laboratorio).

In ogni caso: qualora basata su indagine visiva, non potrà mai assicurare una soglia dello 0%, proprio perché molti sono i casi di piante asintomatiche, seppur infette, e risulterebbe quindi una formulazione ipocrita oltre che rimessa all’operatività dei servizi territoriali; se invece basata su analisi di laboratorio, oltre che troppo dispendiosa e irrealizzabile porterebbe a campionamenti distruttivi su grosse aliquote di risorse intrinsecamente limitate, risulterebbe esiziale ai fini della conservazione on-farm del pool genico presente negli areali di conservazione delle risorse, con gravi riflessi sulla futura disponibilità di fattori di resistenza a nuove avversità biotiche e/o per l’adattamento al cambiamento climatico.

e) Ulteriore impatto negativo è prefigurabile sulla gestione delle piante madri attualmente utilizzate per il prelievo delle marze: definendo una soglia di tolleranza pari a zero in tutte le categorie di moltiplicazione, decade la differenziazione tra le categorie “standard” e “certificato”, inizialmente concepita per definire livelli sanitari diversi.

Nonostante il problema risulti più grave per le varietà a ridotta diffusione, ossia quelle per le quali non si dispone di materiale certificato, il problema investirà progressivamente anche le decine di varietà che, avendo piante madri coltivate in ambienti più favorevoli alle infezioni virali o laddove non si eseguono ripetuti trattamenti insetticidi, verranno via via declassate e/o escluse dal prelievo di marze per la moltiplicazione, con una ulteriore semplificazione del patrimonio varietale.

Conclusioni

Alla luce dello scenario sommariamente tratteggiato, non si può soprassedere dall’evidenziare che si vengono a determinare condizioni del tutto opposte a quelle auspicate, dalla stessa Commissione UE,   nella Relazione  della Commissione al Parlamento Europeo n. 838/2013 – Risorse genetiche in agricoltura — dalla conservazione all’uso sostenibile (10) dalla cui lettura si ricava la sensazione che il modello di normazione verticale dell’UE, a volte, non riesca a contemperare pienamente tutti gli interessi oggetto di tutela e finisca, piuttosto, col delineare scenari del tutto contraddittori rispetto alle dichiarazioni iniziali di principio, che erano di ben altro tenore.

Viene infine proposto un focus esemplificativo degli effetti sulla filiera viticola delle nuove norme fitosanitarie, non solo perché la relativa normativa varietale nazionale garantisce un quadro informativo esaustivo e verificabile, tale da consentire, grazie al Registro Nazionale della Vite da Vino, una immediata quantificazione delle risorse interessate, ma anche perché la nuova normativa fitosanitaria va a danneggiare il settore che ha garantito la più ampia diversificazione produttiva al nostro Paese che, a differenza della Francia e di altri produttori nordeuropei,  proprio sui vitigni autoctoni, oggi massimamente impattati, ha incentrato un percorso di valorizzazione della produzione nazionale sul mercato UE ed internazionale.

Attualmente in Italia risultano iscritte al Registro Nazionale 535 vitigni, di cui 289, quasi tutti autoctoni, sono privi di cloni e vengono commercializzati come materiale standard.

Di fatto con l’entrata in vigore della nuova normativa verrebbe interdetta la commercializzazione di qualsiasi materiale di propagazione per il 54% delle varietà di vite iscritte al Registro Nazionale della Vite da Vino!

Non solo: bisogna tener conto del fatto che, anche in presenza di 1 o più cloni per le principali varietà di vite in produzione, l’incidenza del loro impiego sul totale della superficie investita per la singola varietà è, spesso, minoritaria rispetto al materiale standard, anche per la realizzazione di nuovi impianti. 

Per le numerose DO/IG aventi come base ampelografica vitigni privi di selezione clonale, si determina l’impossibilità di rinnovare o realizzare nuovi impianti per almeno un decennio, ammesso che le varietà siano di interesse per la selezione; se non lo fossero (e abbiamo evidenza che gran parte non sono di interesse per la selezione), si determina di fatto una riduzione del potenziale delle tante DO fondate su autoctoni, ed uno spostamento verso vitigni internazionali ed inevitabile appiattimento dell’offerta.

Infine: sono numerose le varietà che, nonostante i numerosi tentativi di risanamento, hanno evidenziato problemi non superabili in fase di termoterapia e/o micropropagazione (per quanto direttamente noto, è il caso della cv. Malvasia del Lazio).

La nuova normativa fitosanitaria, pertanto, oltre a impedire la commercializzazione delle barbatelle di vitigni autoctoni come materiale standard, andrebbe a semplificare radicalmente anche l’ampia presenza di specifici biotipi di varietà ad ampia diffusione, adattati ad una gamma di ambienti produttivi in ambito nazionale ed internazionale, con una imperdonabile semplificazione del patrimonio genetico.

A ciò non si associa alcun vantaggio immediato: il materiale di moltiplicazione attualmente di categoria standard (ovvero non risanato) garantisce, all’utilizzatore finale, in ogni caso un elevato standard qualitativo/sanitario anche delle barbatelle ottenute da varietà minori (su cui non è mai stata eseguita una selezione clonale) e per quelle stesse varietà maggiormente interessate da infezioni virali e di cui non è sempre possibile il risanamento.

In pratica l’applicazione di una soglia di tolleranza pari a zero per la presenza di organismi nocivi, rende impossibile l’ottenimento e il mantenimento degli attuali piantonai/vivai di categoria standard, peggiorando la situazione attuale, in quanto ridurrebbe la disponibilità generale di materiale certificato e predisporrebbe l’agricoltore al procacciamento illegale di materiale di moltiplicazione di dubbia provenienza e di dubbia qualità fitosanitaria.

Alla luce di quanto evidenziato appare quanto mai stridente la previsione di impedire, nel caso delle sementi, la commercializzazione delle varietà da conservazione, per le quali non vi sarebbe obbligo di risanamento, ove andrebbe correttamente collocata la quasi totalità delle risorse autoctone italiane oggi a catalogo varietale.

Se tale principio non fosse scardinabile (ed allo stato ciò non appare un esito prefigurabile) è urgente un intervento volto a revocare, sul materiale standard, per tutte le specie oggetto di direttiva, la previsione della soglia zero in merito alla presenza di organismi nocivi non soggetti a misure di quarantena, almeno per le varietà con diffusione inferiore a qualche migliaio di ettari, entità facilmente stimabile in ragione dei volumi di semente o di materiale di propagazione commercializzato negli anni.  

Di certo resta il fatto che l’attuale normazione, accetto il margine garantito dalla Direttiva 2008/90 sui fruttiferi, preclude qualsiasi ipotesi di concreta valorizzazione delle risorse autoctone di interesse agrario o, in maniera più articolata, di subordinarne l’applicazione ad una valutazione scientifica sullo stato della singola risorsa, che garantisca opzioni di miglioramento progressivo dello stato fitosanitario, verificabili nel tempo.

Ciò in quanto per ogni risorsa, oltre all’effettivo grado di diffusione che ha implicazioni sulla conservazione del genoma, intervengono numerose variabili, anche di tipo qualitativo (es. un ricercato effetto di contenimento dello sviluppo vegetativo indotto da virosi su alcuni vitigni a bacca bianca…) non condensabili nella presente nota, che fanno propendere, in ogni caso, per il mantenimento in commercio del materiale standard alle attuali condizioni, non solo per le risorse a rischio di erosione, ma anche per le risorse già interessate da processi di selezione e risanamento, in quanto il materiale selezionato sul mercato  non soppianta mai definitivamente quello standard, e in ogni caso va scongiurata la perdita del processo di coevoluzione tra i pool genici delle varietà, nella loro interezza,  e l’ambiente di riferimento.

([1])  Regolamento di esecuzione  (UE) 2019/2072 della Commissione  del 28 novembre 2019 che stabilisce condizioni uniformi per l’attuazione del regolamento (UE) 2016/2031 del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le misure di protezione contro gli organismi nocivi per le piante e che abroga il regolamento (CE) n. 690/2008 della Commissione e modifica il regolamento di esecuzione (UE) 2018/2019 della Commissione

([2]) l’art. 1 del decreto interministeriale 9 aprile 2008 stabilisce che: ”i prodotti agroalimentari tradizionali contenuti negli elenchi di cui al decreto ministeriale 18 luglio 2000 e successive integrazioni costituiscono espressione del patrimonio culturale italiano“). Ad oggi, oltre la metà dei prodotti agroalimentari tradizionali di origine vegetale sono riconducibili a risorse della biodiversità agraria;        

([3]) Direttiva 90/2008 art 3 comma 4 lettera c): In deroga al disposto del paragrafo 1, gli Stati membri possono autorizzare i fornitori operanti sul loro territorio ad immettere sul mercato quantitativi appropriati di materiali di moltiplicazione e di piante da frutto per contribuire a conservare la diversità genetica.

([4]) ratificata fino ad oggi da 192 Paesi;

([5]) Il Reg. CE 1467/94 concernente conservazione, caratterizzazione, raccolta ed utilizzazione delle risorse genetiche in agricoltura all’allegato 1 parte III, reca espressa previsione che il Programma di azione in materia di risorse genetiche in agricoltura avrebbe dovuto garantire priorità a specie che presentavano (o potevano assumere) importanza economica in progetti relativi a: diversificazione della produzione agricola, miglioramento della qualità dei prodotti e migliore tutela dell’ambiente;

([6]) Riccardo Bocci – Le sementi tra libertà e diritti in Scienze del Territorio n. 2/2014:  La Direttiva UE 98/95 è stato il primo atto normativo europeo che, nei considerando, evidenzia “che è necessario garantire che vengano conservate le risorse genetiche e introdurre un fondamento giuridico a tal fine che, nell’ambito della normativa che rego­lamenta la commercializzazione delle sementi, renda possibile la conservazio­ne di specie minacciate dall’erosione genetica mediante l’utilizzazione in situ” (considerando 17).  L’Italia ha recepito questo principio attraverso il D. Lgs. 212/2001, che prevede l’istituzione di una sezione del Registro Nazionale che comprenda le “varietà da conservazione” individuate “tenendo anche conto di va­lutazioni non ufficiali, delle conoscenze acquisite con l’esperienza pratica durante la coltivazione, la riproduzione e l’impie­go e delle descrizioni dettagliate delle va­rietà e delle loro rispettive denominazio­ni, così come notificate: questi elementi se sufficienti danno luogo all’esenzione dell’obbligo dell’esame ufficiale”. Il suc­cessivo Decreto del Presidente della Re­pubblica n. 322 del 9 maggio 2001 avrebbe dovuto fornire gli strumenti operativi per l’attuazione della norma, in particolare sotto il profilo dello scambio fra agricoltori della semente di varietà da conservazione, ma così non è stato.

([7])La direttiva 98/85/CE consente (articoli 1, paragrafo 24, articolo 6, paragrafo 17, e articolo 7, paragrafo 37) la possibilità di definire condizioni particolari per la commercializzazione di tali sementi al fine di assicurarne la conservazione e l’utilizzazione sostenibile; l’Italia ha provveduto solo parzialmente in tal senso con l’articolo 8 del decreto legislativo 24 aprile 2001, n. 212, che ha introdotto un nuovo articolo (19-bis) nell’attuale legge sementiera (legge 25 novembre 1971, n. 1096): Ai produttori agricoli, residenti nei luoghi dove le «varietà da conservazione» iscritte nel registro di cui al comma 1 hanno evoluto le loro proprietà caratteristiche o che provvedano al loro recupero e mantenimento, è riconosciuto il diritto alla vendita diretta in ambito locale di modiche quantità di sementi o materiali da propagazione relativi a tali varietà, qualora prodotti nella azienda condotta. Purtroppo tale articolo non fissa le modalità con le quali gli agricoltori possano legittimamente vendere la semente prodotta in azienda, e a tal fine è in itinere proposta di legge depositata in Senato: http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Emendc&leg=15&id=221688&idoggetto=334908;

([8]) il numero delle varietà autoctone italiane, per le risorse già iscritte ai Registri, non è immediatamente desumibile  in virtù del fatto che all’autoctonia non è associato un profilo giuridico espresso; per i fruttiferi (grazie al lavoro enciclopedico durato dal prof. Carlo Fideghelli del CREA con l’Atlante dei Fruttiferi Autoctoni Italiani) gli autoctoni sono stimati in almeno 5022; i vitigni in almeno 350; 400 le cv. per l’olivo, qualche migliaio le risorse a Registro sementi.

([9]) Accordo Interistituzionale “Legiferare meglio” del 13 aprile 2016 tra il Parlamento Europeo, La Commissione Europea e il Consiglio affinché venga preventivamente valutato il reale impatto della normazione europea.

([10]) Relazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio e al Comitato Economico e Sociale Europeo – Risorse genetiche in agricoltura — dalla conservazione all’uso sostenibile – Bruxelles, 28.11.2013  COM(2013) 838 final –  pag. 7 secondo capoverso: “…Un’efficace attività di conservazione e il rafforzamento della biodiversità e della variabilità in agricoltura esigono un quadro giuridico a livello di Unione che tenga conto delle problematiche legate alle risorse genetiche nell’ottica di agevolare le attività di conservazione e l’uso sostenibile di tali risorse. A tale proposito la Commissione ha proposto di recente una profonda revisione della legislazione concernente il materiale riproduttivo vegetale, che avrebbe per effetto di rafforzare notevolmente la conservazione delle risorse genetiche, in quanto sarebbe considerevolmente facilitato l’accesso ai mercati delle varietà tradizionali con aperture verso varietà meno omogenee…”. E’ evidente che già nel 2013 vi era ampia consapevolezza del problema.

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N.B. – Il Dott. Claudio Di Giovanantonio ha trasmesso l’articolo al Presidente di VAS pregandolo di far suo il problema rappresentato nell’articolo: a suo giudizio bisogna intervenire politicamente per trovare soluzione al fatto che il regolamento di esecuzione è già operativo.

VAS è d’accordo e si attiverà nei prossimi giorni per sensibilizzare il mondo  agricolo e AMBIENTALISTICO oltre a farsi promotore di iniziativa parlamentare

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