Il 1° maggio è un’altra cosa!

 

Care compagne e compagni,

più triste di un 25 aprile chiusi in casa, c’è soltanto un 1° maggio senza poter manifestare. 

Sapendo, purtroppo, che tanti di noi non hanno mai smesso di lavorare, che tanti hanno ripreso in questi giorni, che quasi tutti riprenderanno il 4 maggio e che tanti invece non sanno nemmeno quando e se torneranno a lavorare.

È frustrante celebrare così la giornata dei lavoratori e delle lavoratrici.

E francamente la retorica della carrellata televisiva organizzata per domani da Cgil Cisl Uil non mi consola, anzi mi infastidisce.

Scusate, può essere che sia io troppo stanca o io a non avere voglia di festeggiare.

In questi due mesi di tragedia, i lavoratori e le lavoratrici sono stati di volta in volta dimenticati, fatti eroi, mandati al macello o parcheggiati in smartworking.

La gestione dell’emergenza Covid19 ha subordinato fin dall’inizio la nostra salute agli interessi delle imprese, che non hanno voluto e tuttora non vogliono perdere i loro profitti.

Nelle città più colpite, questa scelta è stata criminale e ha esposto i lavoratori a ammalarsi e, loro malgrado, a diventare veicolo di contagio per i propri cari.

L’unica sicurezza possibile doveva essere, fin dall’inizio, la chiusura dei posti di lavoro non essenziali.

É la Confindustria che non ha voluto, facendo da subito pressioni contro la zona rossa in Val Seriana.

I profitti non dovevano fermarsi, bisognava andare avanti come se niente fosse.

Come se non fosse stato possibile smettere di produrre bulloni, freni per auto, barche di lusso o tubi d’acciaio per qualche settimana!

Così, mentre ci veniva detto #iorestoacasa, centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici hanno continuato a dover andare al lavoro, affollando capannoni e mezzi di trasporto.

Come se niente fosse!

Nonostante nel frattempo il numero dei morti in alcune province, aumentasse a dismisura, con il relativo collasso degli ospedali e la saturazione dei posti di terapia intensiva.

Per non parlare della vera e propria strage avvenuta nelle RSA.

Il lockdown del governo è arrivato in drammatico ritardo (soprattutto per le regioni del nord, che ormai da settimane erano in sofferenza) e si è dimostrato da subito un colabrodo, lasciando troppo margine alla definizione di “attività essenziale” e consentendo l’autocertificazione ai prefetti.

Da lunedì prossimo, nonostante la situazione sanitaria sia ancora critica, anche le fabbriche che si erano fermate ripartiranno. 

Incredibilmente, in tutta Italia! 

Compresi quei territori dove i livelli di contagio sono tutt’altro che “sotto controllo”.

Anzi, a partire proprio da quelli, perché è qui, nel cuore della Lombardia che Confindustria ha i suoi maggiori profitti.

Nella città in cui vivo, che ha il triste primato mondiale delle vittime da Covid19, sono già ripartite anche quelle grandi fabbriche che eravamo riusciti a fermare, grazie agli scioperi spontanei di metà marzo e al forte livello di assenteismo.

Da giorni, dal terrazzo di casa mia, è tornato, continuo, il suono delle sirene delle ambulanze, che per qualche giorno era sembrato diminuire.

Mentre scrivo questa lettera, ne sono passate almeno quattro.

Si poteva evitare questa strage?

Probabilmente no, ma di certo si potevano limitare i danni. 

Se in tutti questi decenni non si fossero continuamente tagliate risorse alla sanità pubblica.

E se in queste settimane il profitto e gli interessi di imprese senza scrupoli non fossero stati considerati un bene primario al quale sacrificare la salute e la vita dei cittadini e dei lavoratori.

Così come ora forse si potrebbe evitare il rischio di una ricaduta, dalla quale la stessa comunità scientifica ci sta mettendo in guardia.

Quando una strage si può prevenire o almeno limitare, se non lo si fa, ci sono delle responsabilità.

E i responsabili, per me, hanno un nome e un cognome: la Confindustria, insieme alla classe politica nazionale, regionale e locale che, di volta in volta, ne ha assecondato la ferocia.

Sono sempre stata contraria alla concertazione come metodo.

Dopo quanto è accaduto in questi mesi, francamente, non considero più questa una opinione, ma un imperativo morale.

In tutto questo, i protocolli di sicurezza sono la foglia di fico per lavarsi quella coscienza sporca di chi sa benissimo che non è il momento di ripartire ma lo fa lo stesso. 

Anzi, lo pretende, sbraitando con ferocia, come Confindustria non ha mai smesso di fare in queste settimane.

Lo sanno che è troppo presto, perché glielo dice la comunità scientifica.

Lo sanno e infatti si nascondono dietro ai protocolli sicurezza ma non vogliono assumersi la responsabilità di aggiornare il DVR, come la legge impone loro.

Lo sanno e infatti propinano ai lavoratori e alle lavoratrici vademecum intrisi di autoritarismo e paternalismo aziendale: entra in fila, non fermarti, non parlare, soffiati il naso nel fazzoletto, lavati le mani dopo aver usato il bagno, lava tu stesso la postazione e persino il lavandino del bagno, non sputare e, in un impeto di bontà, ti concediamo di bere acqua sulle linee.

Sono soltanto alcune delle regole che ho letto – testuali – in alcuni vademecum aziendali distribuiti in grandi fabbriche di Bergamo.

Regolamenti che mettono in discussione la nostra libertà e la nostra stessa dignità.

E che hanno il solo scopo di far credere ai lavoratori e alle lavoratrici che, se si ammaleranno (peggio ancora se contageranno i loro cari), non sarà responsabilità dell’impresa che non ha avuto scrupolo a forzare la ripartenza, ma di loro stessi che non avranno starnutito nel fazzoletto.

Ma è questa l’idea di lavoro che per oltre un secolo abbiamo difeso e celebrato il giorno del 1° maggio?

Per me no, davvero.

Ed è per questo che non ho voglia di festeggiare.

E la retorica da parte del sindacato la trovo oggi ancora più frustrante, perché abbiamo bisogno di altro.

Non accetto una narrazione edulcorata del mondo del lavoro il 1° maggio, passata in televisione tra una canzone e l’altra.

Non corrisponde alla realtà di tutti e tutte quelle che in questi giorni mi hanno chiamata, come a metà marzo, per dire che hanno paura di tornare al lavoro.

O viceversa, paura di perdere il posto o non arrivare a fine mese.

Presi in ostaggio, perché nel frattempo, le risorse per noi sono arrivate con il contagocce.

Se va bene, sei stato in cassa integrazione al 50% del salario.

Se è andata meno bene, eri in cassa in deroga e non vedrai un euro per mesi.

Se è andata peggio devi sperare che la domanda dei 600 non si sia persa chissà dove.

Se è andata proprio male, hai perso il lavoro perché eri precario oppure, lavoravi in nero (spesso tuo malgrado) e non hai più un euro in tasca.

Così sei costretto a decidere: o la borsa o la vita.

I vertici della Cgil, in questi mesi, hanno sbagliato e, soprattutto a livello nazionale, credo che non abbiano capito e continuino a non capire il sentimento dei lavoratori.

Nonostante l’enorme, incredibile sforzo di tante compagne e compagni a tenere aperte le sedi, soprattutto nei territori più colpiti, finché si poteva e continuare comunque a esserci e dare assistenza.

Ma solo il 22 marzo, le segreterie hanno rivendicato il lockdown.

Cioè il giorno stesso che il Governo ha emanato il decreto.

Quando ormai, non serviva più.

Nemmeno quando, a metà marzo, è esplosa l’ondata di scioperi, Cgil Cisl e Uil hanno avuto il coraggio di dichiarare lo sciopero generale.

E non lo fanno tuttora, nemmeno a minacciarlo, con la Confindustria lanciata invece senza scrupolo verso la riapertura del 4 maggio. 

Nella migliore delle ipotesi, abbiamo inseguito la linea imposta dalla Confindustria, limitando nei tavoli del Governo le scelte dettate dalle imprese. 

Lasciando nel frattempo i delegati nei posti di lavoro con le spalle al muro e in mano, se va bene, il protocollo sicurezza.

Non per far contrattate loro l’organizzazione del lavoro, la riduzione dell’orario, dei carichi e delle cadenze, l’aumento delle pause.

Magari!

Con il protocollo si contratta la sicurezza.

E in verità, nella maggior parte dei casi, purtroppo, si contrattata la paura.

Con un paradosso drammatico: le fabbriche saranno aperte (di conseguenza, i trasporti pubblici affollati), subito dopo riapriranno anche i centri commerciali, ma le scuole resteranno chiuse.

Ma se le scuole non sono ritenute sicure, come possono esserlo le fabbriche?

E se, ammesso e non concesso, fossero davvero sicure le fabbriche, perché allora tenere chiuse le scuole?

Io non penso, che debbano riaprire le scuole, il rischio è ancora troppo alto.

Ma, appunto, allora lo è anche per le fabbriche.

Invece gran parte della politica si dispera perché le fabbriche sono chiuse, ma sembra non si interessi che lo siano le scuole e che i bambini e le bambine siano segregati in casa da due mesi.

Che società è quella che ha più fretta di riaprire le fabbriche che le scuole?

E che società è quella che non si preoccupa dei bambini e delle bambine, né tanto meno di tenere le donne in trappola, rimettendole, senza colpo ferire, dentro a un welfare familista tutto poggiato sulle nostre spalle!

Allora, senza sicurezza, senza prevenzione, senza assemblee, senza libertà, senza dignità, senza reddito, senza scuole, senza una spinta forte a lottare…. Cosa resta da celebrare di questo 1° maggio!

Soltanto una cosa, credo.

Una sola, ma tanto importante.

Dopo anni di retorica sull’industria 4.0, lorsignori possono anche avere tutta la fretta del mondo a riaprire le fabbriche, ma se non ci siamo noi, restano vuote e non ne esce un bullone.

Allora, nonostante tutto, facciamoci coraggio e RIBelliamoci!

Eliana Como

PS: vi auguro, di cuore, domani di passare una bella giornata.

In questi mesi, ho imparato, come tutti credo, a considerare cosa è essenziale e cosa invece non lo è.

Il sorriso, gli abbracci, l’affetto dei compagni e delle compagne sono ESSENZIALI.

Quanto avrei voglia, di vedervi in piazza domani e abbracciarvi tutte e tutti, uno per uno.

Se si potesse manifestare nelle città, verrei in ognuna di queste a salutarvi.

Soprattutto ad abbracciare le RIbelle a cui mi lega anche una forte sorellanza e i nostri compagni e compagne pensionati, che i DPCM considerano, loro malgrado, i soggetti più fragili e che continueranno chissà fino a quando a restare segregati in casa.

Per non parlare di quanto vorrei giocare con i bambini e le bambine, figli delle nostre compagne e compagni, che di solito ci accompagnano in manifestazione.

(lettera del 30 aprile 2020 di Eliana Como, sociologa, che lavora presso la FIOM nazionale)

 

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