Un ‘passo indietro’ della Corte Costituzionale in materia di valenza ambientale degli usi civici? La Sentenza n. 71/2020

 

La materia degli usi civici e degli assetti fondiari collettivi ha conosciuto progressi notevolissimi negli ultimi anni.

Ciò è dovuto soprattutto, oltre che alle novità legislative nazionali, tra cui la Legge 20 novembre 2017 n. 168 (norme in materia di domini collettivi), all’elaborazione giurisprudenziale prodotta dalla Corte Costituzionale.

In questa sede si cercherà di tracciare un bilancio di tale percorso che va dalla Sent. 210/2014 all’ultima pronuncia del 24 aprile scorso (Corte Cost. 71/2020).

Si tratta di una catena di decisioni che, indubbiamente, hanno introdotto un diritto nuovo nell’ambito della tutela dell’ambiente, della valorizzazione del paesaggio e della pianificazione e gestione del territorio.

Ma crediamo debbano essere segnalate alcune criticità che, a nostro parere, emergono da questo insieme di decisioni.

Le terre gravate da usi civici si caratterizzano per la loro destinazione ad uso agro-silvo-pastorale da parte delle collettività che ne sono titolari.

Con la c.d. legge Galasso (L. 431/1985) le terre collettive sono state sottoposte a vincolo paesaggistico per legge (ora art. 142, comma 1, lett. h D.Lgs. 42/2004 -Codice del paesaggio), assumendo così la funzione di tutela dell’ambiente.

Tale funzionalizzazione ha avuto riflessi sul riparto di competenze legislative fra Stato e regioni.

Ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. s), cost. infatti, la materia ambiente costituisce un ambito di esclusiva competenza statale.

Inoltre, i diritti delle popolazioni sulle terre collettive si caratterizzano come diritti soggettivi pieni, coperti pertanto da tutte le garanzie delle libertà costituzionali.

Il riflesso di questo assetto è che le competenze legislative regionali in materia non possono invadere la sfera delle materie ‘ambiente’ e ‘ordinamento civile’ di esclusiva spettanza dello Stato ai sensi dell’art. 117, comma 2, lettere l) e s).

Vanno qui ricordati anche gli articoli 135 e 143 del D.Lgs. 42/2004, che prescrivono la codeterminazione Stato-Regioni dei piani paesaggistici nella parte riguardante le aree di interesse paesaggistico per legge – è il caso delle terre gravate da usi civici – e gli altri beni paesaggistici.

Alla recente valorizzazione delle terre collettive in funzione di tutela dell’ambiente si contrappone storicamente la disciplina generale che era stata data alla materia dalla L. 1766/1927.

Essa prevedeva una serie di procedimenti tipici entro i quali dare sistemazione alla viariegatissima congerie di assetti fondiari caratterizzati dalla presenza di diritti di uso e godimento da parte di una collettività (usi civici in senso ampio).

Tra questi procedimenti tipici ricordiamo: la liquidazione di diritti collettivi (pascolo, semina, legnatico, ecc.) su terre private (usi civici in senso stretto); assegnazione a categoria delle terre di proprietà collettiva, che produceva l’effetto di costituire due tipi di vincolo di destinazione, categoria A (bosco e pascolo collettivo) e B (terre a vocazione agricola); la quotizzazione ed il conseguente avviamento a privatizzazione delle terre di categoria B; i procedimenti amministrativi riguardanti le terre di categoria A, quali le legittimazioni di occupazioni abusive, le alienazioni ed il mutamento di destinazione.

A parte quest’ultimo istituto, le legittimazioni e le alienazioni hanno anch’esse l’effetto della trasformazione in allodio (terra privata) della proprietà collettiva o demanio civico.

Questi procedimenti tipici, tutti più o meno finalizzati alla liquidazione dei diritti collettivi, erano affidati ad organi – i commissari per la liquidazione degli usi civici – che esercitavano non solo le

necessarie competenze amministrative, ma anche i poteri giurisdizionali per la soluzione dei contenziosi insorti nel corso dei procedimenti sopra ricordati.

Come si può notare facilmente, tra la legge generale del 1927, a carattere prevalentemente liquidatorio, e la valorizzazione delle terre collettive conseguente alla loro funzionalizzazione come strumento per la conservazione dell’ambiente e del paesaggio si è verificato un cambiamento radicale nel modo di considerare e di gestire i beni di usi civico.

Nel corso di tale cambiamento si è inserito l’art. 3 della L. 97/1994 (disposizioni sulle zone montane) che, per le terre delle collettività montane e per le associazioni agrarie delle province dell’ex Stato Pontificio, ha indicato le linee di un ordinamento del tutto nuovo dei territori appartenenti alle collettività locali, in conformità ai principi di perpetua destinazione agro-silvo-pastorale, inalienabilià ed indivisibilità del patrimonio fondiario, autonomia di organizzazione e corretta gestione,  al fine di promuoverne le potenzialità sia sotto il profilo produttivo sia sotto quello della tutela ambientale.

L’art. 3 della L. 97, ad oggi ancora inattuato, affida al legislatore regionale il compito di disciplinare, nel quadro di un riordino complessivo della materia rispetto alla legge del 1927, i profili riguardanti l’autorizzazione al mutamento di destinazione dei beni collettivi (da realizzare assicurandone la primitiva consistenza), le garanzie di partecipazione alle gestione comune da parte delle famiglie titolari, le forme di pubblicità dei patrimoni e di annotazione del vincolo di destinazione nei registri immobiliari e, infine, le forme di coordinamento e di gestione sostitutiva.

In questi ultimi anni la Corte Costituzionale è intervenuta ripetutamente a far valere i nuovi principi della disciplina in confronto con provvedimenti legislativi delle regioni che la Corte ha ritenuto contrastanti con la funzione ambientale attribuita ai demani civici e la loro natura di beni oggetto di diritti soggettivi delle collettività.

Con la Sentenza 210/2014, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima la norma di cui all’art. 1 della legge della Regione autonoma Sardegna 2 agosto 2013, n. 19, con la quale veniva previsto un Piano straordinario di accertamento demaniale, con possibilità per i comuni di allegare nella documentazione del Piano proposte di “permute, alienazioni, sclassificazioni e trasferimenti dei diritti di uso civico”.

I riflessi di un tale procedimento sui vincoli paesaggistici degli articoli 135 e 143 del D.Lgs. 42/2004, competenza esclusiva dello Stato, hanno portato alla dichiarazione di incostituzionalità della norma regionale.

In sostanza, la regione, Sardegna, pur in presenza di ampie competenze in materia di usi civici, previste dal suo Statuto speciale, non può emanare discipline per la sclassificazione di aree gravate da usi civici in difformità al Codice del paesaggio, caratterizzato quale grande riforma economico-sociale, non derogabile dalle norme regionali.

La Sentenza 103/2017, che ha dichiarato l’incostituzionalità – fra gli altri – dell’art. 4 della legge della Regione autonoma Sardegna n. 5/2016, ha confermato i principi della precedente sentenza del 2014, precisando che “se il mutamento di destinazione è compatibile – sotto gli enunciati profili – col regime di indisponibilità dei beni civici, altrettanto non può dirsi degli istituti dell’alienazione e della legittimazione, i quali – rispettivamente per i beni di categoria a e di categoria b (art. 11 della legge n. 1766 del 1927) – prevedono la trasformazione del demanio in allodio con conseguente trasferimento del bene in proprietà all’acquirente o al legittimatario, attraverso la previa sclassificazione dello stesso.

Detti procedimenti sono stati interpretati con rigorosi criteri restrittivi dal giudice della nomofilachia, che ne ha sovente equiparato i caratteri e gli effetti alla sdemanializzazione vera e propria”.

La Corte ha così voluto ricondurre eventuali procedimenti di sclassificazione entro i rigidi confini della L. 1766/1927 (legittimazioni e alienazioni), affermando espressamente che solo il mutamento di destinazione è compatibile con i nuovi profili ambientali e paesaggistici della tutela delle terre collettive.

Inoltre, in questa pronuncia, si è considerata ormai superata l’assegnazione dei beni civici a categoria (categoria A, bosco e pascolo permanente; categoria B, terre a vocazione agricola e destinate dal legislatore del 1927 a progressiva privatizzazione attraverso i procedimenti di quotizzazione e successiva affrancazione).

Contro i ripetuti tentativi del legislatore sardo di sclassificare con proprie norme le terre gravate da usi civici, il giudice costituzionale ha, in definitiva, fatto valere la regola che “il modello procedimentale che permette la conciliazione degli interessi in gioco e la coesistenza dei due ambiti di competenza legislativa statale e regionale è quello che prevede la previa istruttoria e il previo coinvolgimento dello Stato nella decisione di sottrarre eventualmente alla pianificazione ambientale beni che, almeno in astratto, ne fanno «naturalmente» parte”.

È poi intervenuta la Sentenza n. 113/2018, in cui non è mancato, fra l’altro, un riferimento alla novità legislativa della L. 168/2017 (norme in materia di domini collettivi), che – dice la Corte – ha rafforzato il regime di indisponibilità, imprescrittibilità e inusucapibilità dei beni civici e confermato la funzione del vincolo paesaggistico di garantire “l’interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici per contribuire alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio”.

Soprattutto, questa pronuncia ha colpito con la declaratoria di incostituzionalità l’art 8 della Legge della Regione Lazio n. 1/1986.

Tale norma prevedeva una speciale procedura di alienazione di terre di demanio civico compromesse da occupazione abusiva ed edificazione, ed è stata dichiarata incompatibile con le esclusive competenze normative statali in materia di ordinamento civile e di ambiente [art. 117 Cost., lettere l) e s)].

La Corte Costituzionale ha, così, elaborato uno schema giuridico-dogmatico per cui le regioni possono incidere legislativamente sulla natura demaniale civica dei loro territori esclusivamente attraverso gli strumenti previsti dalla Legge 1766/1927 e attraverso la copianificazione paesaggistica prevista dagli artt. 135 e 143 del D.Lgs. 42/2004.

Ma le regioni sono i soggetti responsabili delle funzioni amministrative principali in materia di operazioni demaniali; sono i soggetti che hanno la competenza amministrativa per le situazioni nelle quali un demanio civico abbia perso in modo irreversibile le proprie caratteristiche morfologiche a causa di usi non conformi alla destinazione agro-silvo-pastorale e di attività edilizie che ne impediscano in modo definitivo il godimendo collettivo.

Per queste situazioni la Corte Costituzionale non ha dato risposta.

Se ne ha conferma dalle due ultime sentenze, una delle quali – la Sentenza 178/2018 – ha già prestato il fianco a critiche per il sostanziale quadro di immobilismo che di fatto consegue alla sua pronuncia[1].

Infatti, Gli artt. 37-39 della legge regionale Sardegna n. 11/2017 ora dichiarati illegittimi avevano il pregio – caso unico in Italia – di legare qualsiasi eventuale ipotesi di sdemanializzazione di terreni a uso civico irreversibilmente trasformati (seppure illegittimamente) a trasferimenti del diritto di uso civico su altri terreni pubblici di pregevole interesse ambientale (es. coste, boschi, zone umide, ecc.) e sempre previa vincolante procedura di copianificazione Stato – Regione.[2]

Dopo decenni di gravissima ignavia dello Stato e di gran parte delle Regioni (Regione autonoma della Sardegna compresa) costituiva un importante passo verso la salvaguardia e la gestione del grande patrimonio delle terre collettive (oltre 5 milioni di ettari in tutta Italia, oltre 300 mila ettari nella sola Sardegna).

Ora la Corte costituzionale ha riportato un clima di grande incertezza senza indicare una strada giuridicamente corretta di agevole percorrenza.

Infatti, si deve ricordare che l’art. 38 della legge regionale n. 11/2017, ora dichiarato illegittimo, aveva sostituito integralmente l’art. 18 ter della legge regionale n. 12/1994 e s.m.i. concernente il trasferimento dei diritti di uso civico e non è pacifica – in conseguenza della sentenza Corte cost. n. 178/2918 – la reviviscenza della norma che continuerebbe a consentire il trasferimento dei diritti di uso civico in altri terreni di proprietà pubblica in casi di irreversibile perdita delle caratteristiche morfologiche o ai fini di accorpamenti o, comunque, di migliore fruizione collettiva e tutela ambientale.

La giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 218/2015Corte cost. n. 13/2012Corte cost. n. 107/1974) non indica un generale e automatico effetto di reviviscenza di norme abrogate in caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale.

In proposito, poi, gli istituti della permuta dei terreni e del trasferimento dei diritti d’uso civico, previsti da varie normative regionali, non sono esplicitamente previsti dalla normativa nazionale (legge n. 168/2017, legge n. 1766/1927, regio decreto n. 332/1928), ma sembrerebbero comunque applicabili in base al favor della legge n. 1766/1927 e s.m.i. per le soluzioni conciliative (art. 29).

I nodi critici evidenziati costituiscono elementi di fondamentale rilievo per una corretta gestione delle terre collettive finalizzata al migliore risultato sotto il profilo della salvaguardia ambientale e della effettiva fruizione dei diritti di uso civico, criticità ben rappresentate anche in sede di Conferenza delle Regioni e Province autonome dove, recentemente (nota prot. n. 18/161/CR12bis/C1 del 13 dicembre 2018 “Problematiche applicative della legge 168/2017 Art. 3, comma 7 in materia di Domini Collettivi”), è stato affermato che “partendo dalla considerazione che la competenza regionale deve essere intesa esclusivamente come legittimazione a promuovere i procedimenti finalizzati alle ipotesi di sclassificazione di cui alla legge 1766/1927 (legittimazione, alienazione e mutamento di destinazione) (sentenza n. 178/2018), ci si interroga sull’ammissibilità di alcuni istituti previsti dalle Leggi regionali, quali la permuta o il trasferimento di usi civici su altri terreni di proprietà del comune”.

Si sente, pertanto, la mancanza di uno spazio normativo delle Regioni per intervenire nei casi di danni irreversibili ai demani civici e ripristinare i valori ambientali che gli usi civici sono in grado di promuovere.

La Corte Costituzionale, tuttavia, ha proseguito il proprio percorso e riaffermato il ‘dogma’ della esclusiva competenza statale nella recente Sentenza 71/2020, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 53 della Legge regionale della Calabria n. 34/2010, quando dispone la cessazione del vincolo di uso civico insistente su aree di sviluppo industriale.

Non si contesta il merito e l’esattezza della decisione, ma non appaiono condivisibili alcune prese di posizione della Corte ivi contenute.

Il giudice costituzionale ha colto l’occasione di questa pronuncia per una “ricognizione  dello stato della legislazione e della giurisprudenza in materia”.

Le considerazioni della Corte riguardano quattro profili ritenuti legati fra loro da un rapporto di interdipendenza e pregiudizialità.

Il primo aspetto è quello relativo al rapporto fra tutela paesistico-ambientale e garanzie di natura civilistica a favore delle collettività titolari dei beni civici.

Si individuano le ragioni del vincolo paesaggistico sulle aree di uso civico nella “particolare sensibilità” alla conservazione del territorio da parte delle collettività tradizionalmente titolari dei domini collettivi, con la conseguenza che la tutela dell’ambiente e del paesaggio ha incorporato il regime giuridico dei beni civici.

Tale regime avendo la sua caratteristica principale nella speciale legittimazione dei singoli utenti-condomini a “promuovere provvedimenti petitori e possessori, uti singuli et cives, a beneficio della collettività cui appartengono”, viene a delinearsi un orizzonte giuridico in cui – se abbiamo colto esattamente il significato delle affermazioni della Corte – l’esercizio delle azioni a tutela degli usi civici, beneficiando l’intera collettività titolare del bene civico, deve operare in “assoluta sinergia con la tutela paesistico-ambientale”.

Quanto al secondo profilo, la Corte si sofferma sul regime e sui limiti della sclassificazione e del mutamento di destinazione degli assetti fondiari collettivi.

Questa seconda riflessione è motivata dal fatto che il guidice a quo della questione di costituzionalità dell’art. 53 della Legge regionale della Calabria n. 34/2010 (nel caso di specie, si tratta della Corte d’Appello di Roma) ha ritenuto tale disposizione in contrasto con la Legge 1766/1927 e con il relativo regolamento R.D. 332/1928, quali norme interposte che si imporrebbero come sole ed uniche previsioni a disposizione per l’affrancamento (e, quindi, la sclassificazione) di terreni gravati da usi civici.

Nel verificare se questo richiamo alla legislazione del 1927-1928 come norma interposta vincolante per le regioni sia esatto, oppure se non occorra prendere in considerazione anche la novità della Legge 168/2017 (norme in materia di domini collettivi), la Corte Costituzionale ha affermato, dando ragione al giudice a quo, che “la legge n. 168 del 2017, oltre che riferirsi ai soli domini collettivi, nulla modifica in ordine alle tipologie di sclassificazione previste dalla legge n. 1766 del 1927 e dal regolamento attuativo approvato con R. decreto 26 febbraio 1928, n. 332”.

La Corte ha poi affermato: “Sull’inderogabile valenza pubblicistica del bene collettivo non incide certo la facoltà prevista dall’art. 1, comma 2, della legge n. 168 del 2017, per gli enti esponenziali delle collettività titolari di domini collettivi, di assumere personalità giuridica di diritto privato.

È evidente che tale facoltà attiene unicamente alle modalità di gestione di tali beni, che può essere costituzionalmente legittima solo nel perimetro fissato dal particolare regime giuridico dell’assetto fondiario, dall’uso paesisticamente coerente dello stesso e dall’impossibilità di escludere da tale particolare societas il godimento del bene collettivo spettante a ciascun membro della collettività”.

Da tale passaggio interpretativo della L. 168/2017 operato dalla Consulta, si ricava che la incostituzionalità della norma del legislatore calabro relativa alla caduta del vincolo dell’uso civico insistente su aree di sviluppo industriale viene a dipendere, oltre che dalla esclusiva competenza normativa statale in materia di ambiente, anche dalla qualificazione della legge generale del 1927 quale unica fonte per il mutamento di destinazione di terreni costituenti demanio civico.

Tralasciando in questa sede la questione della differenza fra la più ristretta categoria dei domini collettivi e quella più ampia dei demani civici, si deve esprimere il rammarico per l’interpretazione restrittiva che il Giudice costituzionale ha così fornito della recente legge n. 168/2017.

A nostro parere questa presa di posizione rappresenta un passo indietro.

In primo luogo, il riconoscimento agli enti gestori della personalità giuridica di diritto privato è il traguardo di un lungo percorso che, dalla legge Tittoni del 1894 alle leggi sulla montagna e alla legge 168, si è caratterizzato per i ripetuti tentativi di sganciare le proprietà collettive proprio dalla configurazione pubblicistica e liquidatoria data ad esse dalla normativa generale del 1927-28.

In secondo luogo, va richiamato l’art. 3, comma 7 della legge 168/2017: “Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, le regioni esercitano le competenze ad esse attribuite dall’articolo 3, comma 1, lettera b), numeri 1), 2), 3) e 4), della legge 31 gennaio 1994, n. 97.

Decorso tale termine, ai relativi adempimenti provvedono con atti propri gli enti esponenziali delle collettività titolari, ciascuno per il proprio territorio di competenza.

I provvedimenti degli enti esponenziali adottati ai sensi del presente comma sono resi esecutivi con deliberazione delle Giunte regionali”.

Il rinnovato richiamo all’art. 3 della L. 97/1994 (la terza legge della montagna) ha una portata che, ci sembra, venga sottovalutata dal Giudice delle leggi nella Sentenza 71 che stiamo commentando.

Fra le competenze legislative che, infatti, il comma 1 lettera b) n. 1 attribuisce alle regioni vi è quella di determinare “le condizioni per poter autorizzare una destinazione, caso per caso, di beni comuni ad attivita’ diverse da quelle agro-silvo-pastorali, assicurando comunque al patrimonio antico la primitiva consistenza agro-silvo-pastorale compreso l’eventuale maggior valore che ne derivasse dalla diversa destinazione dei beni”.

Questa disposizione potrebbe essere valorizzata e dare la copertura costituzionale a norme regionali come quelle di cui alla legge della regione Sardegna n. 11 del 2017 (art. 37 e ss.) che, invece, è stata colpita da declaratoria di incostituzionalità – come sopra visto – dalla Sentenza 178/2018.

Ed in tal modo non solo si compie un passo indietro rispetto all’emancipazione del regime giuridico dei beni di uso civico dalla logica liquidatoria della legge del 1927, rivalutata nella Sentenza 71 in esame; ma si lascia un vuoto normativo per la tutela dei diritti civici laddove i demani abbiano perso irreversibilmente le loro caratteristiche morfologiche per usi distorti rispetto alla destinazione agro-silvo-pastorale.

Il terzo profilo pregiudiziale affrontato dalla Corte riguarda i “rapporti tra soggetti titolari della pianificazione paesistico-ambientale e i titolari di quella urbanistica” e in merito ad esso si afferma correttamente che “quando si verte in tema di pianificazione paesistico-ambientale e dell’assetto del territorio […] l’eventuale coinvolgimento di assetti fondiari collettivi deve prioritariamente passare attraverso un rigoroso esame di compatibilità con le esigenze di natura paesistico-ambientale di competenza statale e con i concreti interessi della collettività locale che ne è titolare”; ma ciò non necessariamente conduce, come al contrario affermato dalla Consulta, al ‘dogma’ della esclusiva competenza legislativa statale.

Infine, il quarto profilo su cui si sofferma il Giudice delle leggi è quello relativo alla compatibilità delle tutele paesistico-ambientali con la “natura mutevole e dinamica dei canoni di gestione del territorio” da parte delle organizzazioni delle comunità titolari. T

ale profilo viene trattato congiuntamente alla definizione del merito della questione posta all’attenzione della Consulta.

Essa ha fondato l’accoglimento delle censure di incostituzionalità proposte dal giudice a quo, innanzi tutto, sulla “pregiudizialità della valutazione in ordine all’eventuale mutamento di destinazione dell’area agro-silvo-pastorale gravata da usi civici rispetto alla sua inclusione nel piano di sviluppo industriale”, confermando la precedente giurisprudenza ricordata in questa sede.

Proprio la suddetta giurisprudenza precedente viene richiamata espressamente dalla Corte per ricordare i reiterati interventi legislativi regionali, tutti sfociati in declaratoria di illegittimità costituzionale, e per affermare che  “tali tentativi appaiono più o meno esplicitamente finalizzati a sistemare situazioni patrimoniali indefinite da lungo tempo, sfociando in un’indebita invasione della competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile.

Peraltro assumono dimensioni palesemente sproporzionate anche quando riguardano la «regolarizzazione» di situazioni sostanzialmente marginali.

Questo reiterarsi di tentativi di invasione della competenza legislativa statale finisce per coinvolgere in un defatigante contenzioso lo Stato, le Regioni, gli enti locali, le comunità territoriali e i giudici di merito.

Dette prassi legislative appaiono peraltro sproporzionate e contraddittorie, perché le esigenze a esse sottese trovano già risposta in procedimenti amministrativi di competenza regionale che si muovono nel perimetro delle deroghe ai principi generali di indisponibilità e inalienabilità, come fissato dalla legge n. 1766 del 1927 e dal relativo regolamento di attuazione (r.d. n. 332 del 1928)”.

Queste considerazioni appaiono come un invito a non legiferare rivolto dal Giudice delle leggi alle regioni e, allo stesso tempo, come un rilancio degli istituti liquidatori (legittimazioni, alienazioni, etc.) di cui alla legge del 1927 ed espressamente elencati nella parte conclusiva della Sentenza n. 71.

Tutto questo percorso logico-giuridico compiuto dalla Corte Costituzionale è condivisibile solo in parte.

Non mancano i passi indietro.

E non mancano contraddizioni.

La piena valorizzazione dei demani civici ai fini dell’ambiente dipende secondo noi da una più ampia e articolata interpretazione della  recente legge n. 168/2017, diversamente da quanto è dato leggere nella pronuncia 71/2020.

A ciò si aggiunge un errore di valutazione, quello di considerare “marginali” i casi di demani civici che perdono la loro naturale conformità alla destinazione agro-silvo-pastorale, come nelle recenti cronache della Sardegna o del contenzioso relativo alla città di Civitavecchia.

Per tali situazioni l’esigenza di recuperare o valori ambientali e di tutelare i diritti di uso civico violati non può trovare soluzioni alla luce della strada indicata dalla Corte Costituzionale con la Sentenza n. 71/2020.

 Daniele Natili Stefano DeliperiGruppo di Intervento Giuridico onlus

[1] S. Deliperi, I demani civici in Sardegna, un grande patrimonio da difendere, in S. Rosati (cur.), “Il cammino delle terre comuni”. Dalle leggi liquidatorie degli usi civici al riconoscimento costituzionale dei domini collettivi. Atti del I Convegno nazionale sui domini collettivi (Tarquinia, 8 giugno 2019), pp. 300-302.   S. Deliperi, La Corte costituzionale rende ancor più incerta la sorte dei demani civici in Sardegna, in Rivista telematica di diritto ambientale Lexambiente, 2018.

[2] In passato la Corte costituzionale aveva ritenuto legittimi provvedimenti normativi regionali che consentivano procedure di sdemanializzazione di terreni a uso civico una volta oggetto di trasformazioni irreversibili senza alcuna contropartita (vds. Corte cost. n. 511/1991).

(Articolo pubblicato con questo titolo il 22 ottobre 2020 sul sito online del  Gruppo d’Intervento Giuridico)

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