Grano e non solo: il mondo rischia la fame

La crisi alimentare colpirà i più poveri

Di STEFANO VERGINE, IL FATTO QUOTIDIANO 27 MARZO 2022

Il pane scarseggia già. E sabato prossimo inizia il Ramadan, periodo in cui di solito le persone spendono di più per fare la spesa. “Scaffali vuoti, lunghe code, panifici aperti solo al mattino”, raccontava già una settimana fa un reportage di Le Figaro da Tunisi. Il Paese africano più vicino all’Italia, prima tessera del domino delle Primavere arabe che dieci anni fa hanno ridisegnato la mappa del potere tra Nord Africa e Medio Oriente, è anche quello che rischia di subire per primo gli effetti della guerra in Ucraina scatenata da Vladimir Putin. “Stiamo entrando in una crisi alimentare senza precedenti”, ha dichiarato giovedì il presidente della Francia, Emmanuel Macron, sempre attento a quello che succede a sud del Mediterraneo, dati gli interessi di Parigi.
I prezzi delle materie prime agricole sono alle stelle e alcuni dei maggiori esperti prevedono che il rialzo non si fermerà presto. “Questo potrebbe causare un aumento della fame e della povertà, con conseguenze pesanti sulla stabilità globale”, è l’allarme lanciato da Gilbert Houngbo, presidente dell’Ifad, il fondo internazionale dell’Onu per lo sviluppo agricolo. Il conflitto europeo coinvolge infatti due dei più grandi esportatori al mondo di grano e mais, elementi cardine per la dieta di buona parte della popolazione globale.
I dati delle Nazioni Unite sulla dipendenza dei vari Paesi dall’agricoltura di Ucraina e Russia dimostrano che il Continente più a rischio è l’Africa. E che la Tunisia è una delle nazioni messe peggio: importa circa il 50% del grano da Kiev, una quota superiore a quella di quasi tutti gli altri Paesi. La guerra che sta devastando l’Ucraina ha portato il governo guidato da Volodymyr Zelensky a bloccare le esportazioni di grano, orzo e altri prodotti alimentari. Per questo il pane scarseggia già nei supermercati della piccola repubblica del Maghreb, dove la disoccupazione giovanile è al 42,8% (dati del terzo trimestre 2021), poco più alta di quando la rivoluzione costrinse alla fuga il dittatore Ben Ali. Era il 2011.
Oggi a guidare la Tunisia c’è Kais Saied, presidente eletto democraticamente, che da qualche tempo ha iniziato ad essere accusato di mire autocratiche per aver sospeso il Parlamento e licenziato mezzo governo. La rabbia popolare contro i suoi metodi ha già innescato varie manifestazioni, l’ultima delle quali è andata in scena domenica scorsa a Tunisi, ma i problemi principali che Saied deve affrontare adesso sono finanziari. Con il deficit in crescita (Fitch, che lo prevede all’8,5% sul Pil nel 2022, la scorsa settimana ha abbassato il giudizio a CCC) e il debito pubblico arrivato sopra l’80%, il Paese rischia il default. Lo ha scritto martedì scorso anche Morgan Stanley, secondo cui “se il tasso di deterioramento delle finanze pubbliche dovesse continuare, è probabile che la Tunisia non riuscirà a ripagare i suoi debiti”. Gli analisti della banca americana hanno aggiunto che il crack potrebbe avvenire l’anno prossimo, a meno che Tunisi non decida di chiedere un prestito al Fondo monetario internazionale e inizi a fare significativi tagli alla spesa pubblica. La ricetta potrebbe però portare in dote altre critiche a Saied, perché ridurre la spesa mentre i prezzi aumentano fa di solito infuriare chi fa già fatica a vivere. E i prezzi, ha detto martedì alla Cnbc Jim Cramer, guru delle commodities agricole, non scenderanno presto: “Sia il grano che il mais sono diretti verso l’alto, forse molto in alto. È l’ultima cosa che vorremmo vedere, ma potremmo doverci abituare”.
La situazione di Tunisi non è molto diversa da quella del resto del mondo. “L’emergenza cibo sarà reale, il costo delle sanzioni non lo paga solo la Russia, ma anche i nostri alleati europei”, ha detto il presidente degli Usa, Joe Biden, durante la visita a Bruxelles di questa settimana. I prezzi del cibo erano già in salita da qualche mese, spinti dai rincari di gas e petrolio iniziati a dicembre. La guerra in Ucraina ha fatto da booster. “L’inflazione alimentare nell’Ue ha raggiunto il 5,6% rispetto a febbraio del 2021”, ha ricordato la Commissione europea. I dati di marzo diranno quanto ha pesato finora il conflitto in corso.
Russia e Ucraina insieme sono responsabili del 30% delle esportazioni mondiali di grano, cui si aggiungono percentuali rilevanti di mais, orzo, olio di semi di girasole. Non tutti i Paesi subiscono però le conseguenze allo stesso modo. Quelle che rischiano di più adesso sono le nazioni maggiormente dipendenti dalle importazioni ucraine: Libano, Moldavia, Qatar, Pakistan e Indonesia sono in cima alla classifica, oltre appunto alla Tunisia. Diverse sono invece le conseguenze per chi ha legami strettissimi con la Russia, come ad esempio Benin, Sudan, Tanzania, Rwanda, Madagascar, Egitto. Mentre Kiev ha vietato le esportazioni per soddisfare la domanda interna, Mosca continua a vendere all’estero le sue materie prime alimentari. Il problema sono le sanzioni, prima fra tutte l’esclusione delle banche russe dal circuito Swift. “Questa misura – spiega Alessandro Zappa, analista della società di trading Kommodities Partners – rende più scomodi i pagamenti, ma non li blocca. Sono sempre possibili triangolazioni attraverso banche di Paesi non sanzionati, come ad esempio quelle di Pechino, e il sistema cinese Cips può essere per certi versi un’alternativa allo Swift. Il problema principale, per molti, non è dunque quello di non poter comprare prodotti agricoli dalla Russia, ma di doverle acquistare a prezzi più alti”.
La direttrice operativa del Fondo monetario internazionale, la bulgara Kristalina Georgieva, non a caso ha detto a metà marzo di essere particolarmente preoccupata per l’Egitto, che con i suoi 100 milioni di abitanti dipende per il 60% proprio delle importazioni di grano di Mosca (e per un altro 20% dall’Ucraina).
Alla fine, molto potrebbe dipendere dalle condizioni contrattuali che ogni nazione riuscirà a ottenere dalla Russia. Alcuni Paesi africani sembrano aver tenuto a mente questo punto quando, mercoledì 2 marzo, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato una risoluzione per condannare l’invasione dell’Ucraina e chiedere a Mosca di ritirare le truppe. Dei 193 paesi membri dell’Onu, 141 hanno detto sì, 35 si sono astenuti e 5 hanno votato contro. Forse è casuale, ma tra le nazioni africane che non si sono schierate contro Putin, parecchie sono legate a doppio filo al grano russo: Madagascar, Namibia, Repubblica del Congo, Sudan, Uganda, Tanzania, solo per citarne alcune. Il rischio maggiore è legato ora ai tempi del conflitto. “Il peggio si vedrà tra 12-18 mesi”, ha previsto Macron, perché adesso “l’Ucraina non può seminare”. Insomma, se la guerra non finirà presto, l’anno prossimo il granaio d’Europa non sarà in grado di sfamare il mondo. A pagare il conto più salato, ancora una volta, saranno Africa e Medio Oriente.

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