A trenta anni da Chernobyl

 

Reattore 4 di Chernobyl esploso.

Giugno 1986: ecco come appariva il reattore 4 della centrale nucleare di Chernobyl, dopo l’esplosione

Il 26 aprile 1996 Giorgio Nebbia e Guido Pollice hanno diffuso un articolo dal titolo “A dieci anni da Chernobyl”: nel giorno della ricorrenza trentennale di quel disastro VAS ripropone lo stesso articolo, aggiustato ed attualizzato da Giorgio Nebbia per mettere in risalto  come i suoi contenuti siano tuttora più che validi.

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Sono passati trent’anni dalla fusione del nocciolo del reattore sovietico di Chernobyl.

La catastrofe avvenne il 26 aprile 1986 mattina; quando cessò la circolazione dell’acqua e il raffreddamento, il nocciolo del reattore raggiunse temperature altissime che provocarono la fusione di strutture metalliche e degli elementi del combustibile nucleare contenenti uranio, plutonio e gli atomi radioattivi formatisi nella fissione dell’uranio e del plutonio.

In seguito al riscaldamento la grafite, che fungeva da moderatore dei neutroni, si incendiò e i fumi dell’incendio trascinarono nell’aria polveri e atomi radioattivi.

Gran parte ricadde in Ucraina, nelle vicinanze della centrale, colpendo gli abitanti di paesi e villaggi, gli animali e i campi.

La “nube” radioattiva si diresse poi dapprima verso nord, poi verso ovest, poi verso sud ovest raggiungendo l’Italia.

Le notizie della catastrofe arrivarono a gocce: i mezzi di comunicazione minimizzarono o esagerarono l’evento, lasciando i lettori e gli ascoltatori del tutto disorientati.

Mentre si mobilitava la solidarietà internazionale per il popolo dell’Ucraina, mentre molti eroi, pur sapendo di perdere la propria vita, volarono sul reattore in fiamme per gettare piombo e cemento per coprire il nucleo scoperchiato e fermare la fuoriuscita della radioattività, salvando la vita di milioni di persone, in Italia si ebbero reazioni sconsiderate davanti alla ricaduta sul nostro territorio di una parte della radioattività.

In alcune zone, soprattutto nell’Italia settentrionale l’erba dei pascoli, il latte, la verdura risultò contaminata dalla radioattività proveniente dalla lontana Ucraina.

Ma anche qui vi furono silenzi, bugie ed errori nelle analisi; i cittadini non capivano niente e rimasero spaventati, arrabbiati.

La struttura dei controlli sanitari mostrò di essere sbandata, con centinaia di laboratori che avrebbero dovuto, ma non erano in grado, di misurare la radioattività degli alimenti.

Assistemmo a indegne speculazioni da parte di agricoltori e commercianti.

Chernobyl dimostrò quanto gli ecologisti affermavano da anni, che l’energia nucleare non è sicura, né economica, né pulita.

Ma soprattutto rappresentò una sconfitta di tutti, dei governi e delle industrie, dei sistemi di sicurezza e dei mezzi di informazione; svelò la mancanza di cultura industriale e scientifica degli uomini politici, molti dei quali, davanti alla rabbiosa reazione della popolazione, non esitarono a voltare gabbana e a dichiararsi “antinuclearisti”, magari a far credere che lo erano stati da sempre.

Di fronte alla solidarietà per i bambini ucraini e russi, molti dei quali continuano a portare per tutta la vita le conseguenze della radioattività assorbita.

È vero che il produrre merci, compresa l’energia, ha sempre effetti negativi sulle acque, sull’aria e sulla salute dei lavoratori e dei cittadini, ma l’energia nucleare è senza dubbio una delle maggiori fonti potenziali di nocività e di catastrofi, come sostenne già in quel tempo ad alta voce l’associazione Verde Ambiente Società.

Ma i danni possono essere ridotti, molte catastrofi possono essere evitate, a condizione che cresca una cultura della tecnica, che nelle scuole e nelle università si insegni che cosa significa produrre energia e macchine e merci.

A condizione che i governi abbandonino la favola delle virtù del libero mercato e imparino a tenere sotto controllo e pianificare la produzione industriale — che cosa si produce, dove e come e quanto si produce — la localizzazione delle fabbriche, i processi tecnici e manifatturieri.

A condizione che vengano investiti soldi per le apparecchiature e vengano aumentati i chimici, ingegneri e biologi impegnati nelle struttura di controllo della salute e dell’ambiente.

Questa è la lezione che Parlamento e governi, in questi trent’anni, non hanno ancora imparato come dimostra l’ininterrotta sequenza di inquinamenti dell’aria e delle acque, la fragilità perfino delle condotte del petrolio, gli scoli non depurati che ancora finiscono nei fiumi e nel mare, le valli e strade che franano ad ogni pioggia, la lunga fila di morti nei cantieri e nelle fabbriche.

Diventeremo mai un paese moderno ?

 

 

 

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