Salvatore Settis «Qui tutte le chiese sono piene di sordide, maledette e menzognere immagini, ma tutti le venerano. Perciò le sto distruggendo una per una da solo, con le mie mani, per combattere la superstizione e l’eresia». La scena è Torino, e chi parla non è un estremista islamico ma Claudio, irriducibile campione di un’iconoclastia militante, che di Torino fu vescovo per dodici anni (dall’816 all’828). Secondo il suo contemporaneo Giona di Orléans, Claudio, «acceso da zelo sconfinato e senza freni, devastò e abbatté in tutte le chiese della diocesi non solo i dipinti di storia sacra, ma perfino tutte le croci», deridendo gli avversari: «Cristo fu sulla croce per sei ore, e dobbiamo venerare tutte le croci? Non dovremmo allora venerare anche le mangiatoie, dato che fu in una mangiatoia, le barche perché in barca fu spesso, gli asini perché su un asino entrò a Gerusalemme, i rovi perché di rovo era la corona di spine, le lance perché una lancia gli fu confitta nel costato?» Troppo spesso consideriamo l’iconoclastia un corpo estraneo rispetto alla cultura “occidentale”, attribuendola in esclusiva all’Islam, o semmai a una fase della storia religiosa di Bisanzio. Ma non meno spietata, e più vicina a noi, fu l’iconoclastia protestante, lanciata a Zurigo nel 1523 e poi diffusa in tutti i Paesi a nord delle Alpi. Al British Iconoclasm la Tate Gallery dedicò nel 2013 una mostra importante, e con egual forza il fanatismo di Claudio di Torino ci obbliga a guardare anche l’iconoclasta che è in noi. Eppure, da Bamiyan a Timbuctu, l’iconoclastia vista dall’Europa sembra dover portare un solo marchio di fabbrica, quello dell’Islam. Gli stessi autori di queste devastazioni fanno di tutto per accreditare la radice teologico- religiosa della loro furia demolitrice, presentata come ossequio ai precetti del Corano. Se accettiamo questa […]