Ecco come cambierebbe l’economia italiana senza sussidi ai combustibili fossili

 

Al di là delle belle parole, l’Italia è ancora molto lontana dal sostenere la transizione ecologica con risorse adeguate: il Catalogo appena pubblicato dal ministero dell’Ambiente mostra semmai che continuiamo a spendere in direzione ostinatamente contraria, con lo Stato che dedica molte più risorse ai sussidi ambientalmente dannosi (19,3 miliardi di euro/anno) di quanto non faccia per quelli ambientalmente favorevoli (15,2 miliardi di euro/anno).

In questo contesto sono ancora i sussidi ai combustibili fossili a fare la parte del leone: secondo le stime del ministero dell’Ambiente a loro sono andati nel 2017 16,8 miliardi di euro, e secondo Legambiente si è già toccata quota 18,8 miliardi di euro.

Come cambierebbe l’economia italiana se decidessimo di dedicare ad altro questa somma enorme?

Per la prima volta a confrontarsi con questa domanda non è un’associazione ambientalista, ma direttamente il ministero dell’Ambiente attraverso un focus dedicato all’interno del Catalogo.

Tre le alternative prese a riferimento: nello scenario A la rimozione delle sovvenzioni comporta solo una riduzione della spesa pubblica; nello scenario B le entrate derivanti dalla rimozione sono ripartite per aumentare gli attuali risparmi di bilancio, sovvenzionare le fonti rinnovabili e migliorare l’efficienza energetica del settore industriale; nello scenario C i proventi sono invece destinati a ridurre il cosiddetto cuneo fiscale del lavoro “qualificato”.

«In tutti gli scenari – spiega il ministro dell’Ambiente – le emissioni si riducono in modo significativo a causa della riduzione (scenario A) o ristrutturazione (scenari B e C) della spesa pubblica.

Per quanto riguarda gli effetti sul Pil, i risultati differiscono tra gli scenari.

Nel primo scenario A, osserviamo una riduzione del Pil bassa ma significativa di -0,58% mentre negli scenari B e C dove i risparmi di bilancio sono riciclati per favorire i risultati dell’attività economica si registra un aumento del Pil dello 0,82% e 1,60% rispettivamente.

Tra i settori, l’offerta di energia e i settori dei trasporti mostrano le maggiori riduzioni della produzione.

Al contrario, il settore delle energie rinnovabili aumenta significativamente in tutti e tre gli scenari: rispettivamente dell’1,1%, del 22,9% e dello 0,3%.

I settori dei servizi e dell’industria aumentano lievemente solo negli scenari B e C rispettivamente dello 0,6% e 1,2% e dello 0,7% e del 2,2%.

Per gli stessi scenari, i risultati mostrano anche un impatto positivo sull’occupazione che aumenta del 2,3% e del 4,2%».

Dunque, secondo le stime dello stesso Governo italiano togliere i sussidi attualmente destinati ai combustibili fossili e dedicarli a scopi più virtuosi potrebbe permettere di tagliare ampiamente le emissioni di gas serra (-2,13% nello scenario A, -2,68% nel B, -0,88% nel C), permettere una crescita del Pil fino al +1,60% – ovvero quasi il doppio di quella effettivamente conseguita dall’Italia nel 2018, e oltre il quintuplo di quella stimata dall’Istat per l’anno in corso – e di spingere l’occupazione fino al +4,2%.

Peccato che di tutto questo non ci sia traccia nelle politiche portate avanti dalla maggioranza M5S – Lega.

Certo, come avverte il ministero dell’Ambiente togliere i sussidi ai combustibili fossili potrebbe comunque creare alcuni inconvenienti, sia dal punto di vista commerciale sia ambientale: nella fattispecie «la rimozione dei sussidi da parte dell’Italia potrebbe rivelarsi un vantaggio competitivo per gli altri paesi (che nel nuovo scenario possono produrre a costi relativamente inferiori) e determinare un aumento delle importazioni dell’Italia dal resto del mondo», il che a sua volta provocherebbe un trasferimento (il cosiddetto “leakage”) delle emissioni di carbonio verso gli altri paesi.

Non a caso la lotta contro i cambiamenti climatici è una sfida globale: se l’Italia decidesse di fare sul serio sui sussidi ai combustibili fossili potrebbe poi aprire da leader un fronte politico all’interno dell’Unione europea, l’area dove nel 2018 si è concentrato il 68,9% del nostro import e il 66,8% del nostro export, e guidare la transizione ecologica dell’intero continente. Ma in questo caso più che di stime si tratta purtroppo di fantascienza, almeno finché durerà la sbornia del sovranismo.

 

(Articolo di Luca Aterini, pubblicato con questo titolo il 9 luglio 2019 sul sito online “greenreport.it”)

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