Antartide: i ghiacciai si stanno disintegrando. “Cannoni sparaneve contro lo scioglimento”

 

IL DESTINO di una fetta consistente della popolazione mondiale, quella che risiede nelle grandi metropoli sul mare, è legato alla tenuta dei ghiacci di un angolo del continente antartico che si sta sbriciolando anno dopo anno.

Lì nell’ovest, i ghiacciai Thwaites e Pine Island, due dei più grandi dell’Antartide e tra quelli più tenuti sotto osservazione, sono sulla via del collasso.

Se si sciogliessero completamente, assieme al resto del West Antarctica ice sheet, potrebbero innalzare il livello dei mari e degli oceani di tre metri sommergendo New York, Calcutta, Miami e Tokyo.

Ma anche le zone costiere, Italia compresa con Venezia e la costa adriatica, isole e atolli nel Pacifico.

L’allarme sta squillando ormai da qualche anno e le proiezioni indicano che centinaia di milioni di persone dovranno un giorno traslocare in luoghi più sicuri perché le regioni che abitano saranno sommerse.

Un gruppo di ricercatori della Università tedesca di Potsdam ha dunque lanciato una proposta estrema: sparare neve artificiale, come si fa sulle piste da sci, per fermare lo scioglimento.

Neve artificiale in Antartide

I calcoli, vale la pena precisarlo, hanno tutti i crismi della scientificità e sono stati pubblicati in uno studio su Science Advances.

L’idea di Johannes FeldmannAnders Levermann, e Matthias Mengel è quella di stabilizzare quelle zone con nevicate artificiali raccogliendo acqua dal mare dopo averla desalinizzata.

Ma come riportano gli stessi autori, è una soluzione tutt’altro che facile da mettere in pratica.

Servirebbero infatti qualcosa come 12.000 turbine per sparare, in dieci anni, 7.400 miliardi di tonnellate di neve su Thwaites e Pine Island, cioè la quantità necessaria, secondo lo studio, per stabilizzare l’area e fermare lo sfaldamento dei ghiacciai.

Si tratterebbe di uno sforzo titanico di geoingegneria (lo studio di soluzioni per modificare il clima anche su scala globale per rimediare all’emergenza del climate change) che avrebbe i suoi costi.

Altissimi.

Innanzi tutto proprio in termini energetici (e quindi di potenziali emissioni di CO2, per esempio), perché significherebbe usare pompe per risucchiare acqua dall’oceano e impianti di desalinizzazione per non sparare neve salata (una componente che indurrebbe effetti non calcolabili sulla circolazione del ghiaccio).

A tutto questo, sottolineano gli stessi scienziati, si aggiunge la perturbazione di un ecosistema e, soprattutto, delle correnti in quella regione “potenzialmente agevolando l’intrusione di acqua più calda nelle cavità della piattaforma di ghiaccio“.

E questo contribuirebbe a destabilizzare di nuovo i ghiacciai. Insomma, un cane che si morde la coda.

Il gigante si è svegliato

È una delle frasi più citate sui rischi dello scioglimento in Antartide: “Abbiamo già svegliato il gigante al Polo Sud“, dice Levermann.

Significa che lo scioglimento dei ghiacciai, Thwaites e Pine Island su tutti, è iniziato, corre e sarà difficile fermarlo.

L’idea dei cannoni sparaneve somiglia dunque più a una provocazione per attirare l’attenzione sul problema, che non a una reale proposta operativa.

I due ghiacciai sono tra i più grandi del continente antartico, e tra i più veloci come flusso.

Questo porta a uno scioglimento sempre più accentuato.

Secondo i calcoli citati dallo studio, la piattaforma di ghiaccio dell’Antartide occidentale è passata dai 0,15 millimetri nel 1992 a 0,44 millimetri nel 2017 come contributo all’innalzamento dei mari.

Possono sembrare un’inezia, invece sono la spia di un sistema che potrebbe presto crollare con conseguenze devastanti.

Dagli anni ‘90 ai primi 2000, la perdita di ghiacci da entrambe le regioni è cresciuta dai sei miliardi di tonnellate ai 40 all’anno per il Pine Island e dai 30 ai 52 per il Thwaites, che ha le dimensioni della Florida, ed è attualmente responsabile di circa il 4% del livello del mare su scala mondiale.

L’equilibrio instabile

La fragilità dei ghiacciai è stata messa in luce, alcuni mesi fa, da un altro studio (prima firma Pietro Milillo del JPL della Nasa e come coautrice l’italiana Paola Rizzoli) che ha individuato grazie ai satelliti della costellazione italiana Cosmo-SkyMed, una gigantesca caverna grande quasi quanto l’isola di Manhattan e alta fino a 300 metri.

Questo favorisce l’infiltrazione di calore e acqua più calda, favorendone lo scioglimento dal basso accentuato proprio dalle temperature più alte dell’oceano.

Siamo già a un punto di non ritorno, se non facciamo qualcosa – aggiunge Levermann – quindi possiamo tornare a una stabilità con un piccolo intervento ora, oppure con un intervento sempre più grande più tardi“.

Stiamo perdendo tempo, il cambiamento è sotto gli occhi di tutti, da molti anni, e occorre fare qualcosa. In primis, smettere di pompare nell’aria così tanti gas serra, tagliando le emissioni.

 

(Articolo di Matteo Marini, pubblicato con questo titolo il 23 luglio 2019 sul sito online del quotidiano “la Repubblica”)

 

 

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