E’ già da un po’ di tempo che i biocombustibili, carburanti derivanti da masse vegetali, hanno smarrito per strada la loro vocazione sostenibile: che non rappresentino una valida alternativa ai combustibili fossili oramai è risaputo; ma quello che non si sa abbastanza è quanto e come siano ancora utilizzati e di quale entità sia il danno che apportano all’ambiente. Che è doppio, in quanto si verifica a monte, al momento della produzione, affatto sostenibile, ed a valle, al momento del loro utilizzo. L’ultimo Rapporto IPCC (Climate Change and Land, redatto nell’’agosto 2019 dagli scienziati Onu su clima, desertificazione, degrado del suolo, gestione sostenibile del territorio, sicurezza alimentare e flussi di gas serra negli ecosistemi terrestri ha affermato definitivamente che devono essere imposti dei limiti all´uso di coltivazioni a scopo energetico. Il principale incriminato è sempre lui, l’olio di palma: le monoculture che tappezzano il pianeta stanno impattando pesantemente, in maniera diretta o indiretta, su ecosistemi primari preziosissimi per l’equilibrio atmosferico e la biodiversità, i sistemi di certificazione delle produzioni, stabiliti dal 2008, sono opachi e non hanno ancora dato i risultati sperati, e se si tiene conto dell’effetto deforestazione, ogni litro di olio di palma comporta il triplo delle emissioni di CO2 di un uguale volume di gasolio fossile. OLTRE A CONDURRE LA CLASSIFICA dei biocombustibili più dannosi, l’olio di palma è anche in cima a quella dei consumi. Negli ultimi anni, a suon di campagne condotte dalle organizzazioni ambientaliste e complici anche alcuni timori, nemmeno del tutto fondati, sulla sua salubrità, abbiamo imparato ad evitarlo come la peste in alcuni prodotti di uso quotidiano: infatti per generi come pane, gelati, crema di nocciole, cioccolato, margarina, shampoo e detergenti consumo di olio di palma nel 2019 è sceso in Europa al minimo storico di 2,8 milioni di tonnellate; ma per […]