Cappero, il selvatico che fa bene alla salute

 

Fiori di capperi

Sono molte le piante e le produzioni del settore agroalimentare che sono scomparse negli ultimi decenni nelle regioni italiane, segnando una perdita di tradizioni, cultura e memoria.

Ma c’è un piccolo arbusto selvatico che resiste e si propone per le sue proprietà botaniche e salutistiche, rappresentando uno dei simboli della vegetazione e della cucina mediterranea.

Si tratta del cappero, Capparis spinosa, una pianta perenne e spontanea che ha una storia millenaria.

Originaria delle zone aride dell’Asia Minore, si è diffusa lungo le coste del Mediterraneo, rappresentando per gli antichi greci e romani e per le popolazioni arabe un prezioso alimento e medicamento.

La pianta, grazie alla sua particolare natura, è riuscita a insediarsi nelle zone aspre e assolate, adattandosi a condizioni ambientali proibitive per altre forme di vegetazione.

Una pianta eliofila difficile da addomesticare in quanto ha bisogno dell’esposizione diretta alla luce solare, di terreni calcarei e asciutti e di una brezza di mare che solo le località costiere possono dare.

La sua coltivazione può avvenire solo a condizione di riprodurre lo stesso ambiente che si riscontra allo stato spontaneo.

PANTELLERIA E SALINA SONO LE DUE ISOLE in cui tutti gli elementi favorevoli si sono fusi, diventando i luoghi eletti per la coltivazione della pianta, con un modello di agricoltura sostenibile dal punto di vista ecologico.

Il cappero ha goduto fin dall’antichità di grande considerazione come pianta officinale in grado di apportare benefici in presenza di disturbi di vario tipo. Plinio il vecchio elenca le caratteristiche delle diverse varietà in base alla provenienza.

Discoride e Galeno, insigni medici e botanici dell’antichità classica, considerati i fondatori della farmacologia, ne esaltano le virtù curative.

Sta di fatto che gli estratti e i decotti ottenuti da foglie, radici, fiori venivano utilizzati come diuretici, depurativi, digestivi, per problemi di milza, stomaco, intestino.

Non è mancata, nel corso dei secoli, l’esaltazione delle proprietà afrodisiache del cappero.

Il veneziano Domenico Romoli, detto Panunto, nel 1560 nel suo trattato culinario La singolar dottrina, così scriveva: «Quelli che mangiano i capperi non avranno dolori di milza e fegato, son contrari alla malinconia, producono urina e fan vivace il coito».

Più recentemente sono state individuate nuove proprietà e benefici, in relazione alla presenza nella pianta di una elevata concentrazione di quercetina, un antiossidante naturale appartenente al gruppo dei flavonoidi che rafforzerebbe il sistema immunitario.

Uno studio pubblicato nell’agosto di quest’anno sulla rivista scientifica International Journal of Biological Macromolecules attribuisce alla quercetina la capacità di svolgere un’attività antivirale e in grado di contrastare a livello cellulare la replicazione del coronavirus responsabile dell’attuale pandemia. Una pianta che non finisce di sorprendere.

LA COLTIVAZIONE ODIERNA MIRA essenzialmente a produrre quelli che vengono denominati capperi, che sono i boccioli della pianta che si raccolgono prima che si aprano e si trasformino in fiore.

La raccolta avviene da maggio a settembre, con un impegno quotidiano per evitare la fioritura.

Non ci sono macchine raccoglitrici e i preziosi boccioli si devono raccogliere a mano, uno per uno, come avviene da centinaia di anni.

C’è da dire che i fiori del cappero, profumati e di colore bianco-rosato, con lunghi stami color lilla, sono tra i più belli del paesaggio mediterraneo.

Dal fiore si formano delle piccole bacche chiamate cucunci o cetrioli del cappero che sono i veri frutti che contengono i semi.

In questi ultimi anni si è ampliata la superficie coltivata, raggiungendo a livello nazionale i mille ettari, per una produzione annua che si aggira intorno ai 2500 quintali.

Ma è un dato variabile di anno in anno, influenzato da fattori climatici e fitosanitari.

Quasi il 70% del prodotto si ottiene nell’isola di Pantelleria, seguita dall’isola di Salina.

Le coltivazioni di Puglia e Sardegna forniscono valori abbastanza modesti.

La produzione italiana è tuttavia insufficiente a coprire il fabbisogno che è di 10 mila quintali annui e si deve ricorrere alle importazioni da Egitto, Marocco, Turchia.

IL CAPPERO È INSERITO TRA I PRODOTTI agroalimentari tradizionali italiani e figura come prodotto tipico siciliano: quello di Pantelleria, che ha come varietà coltivata la Nocellara, ha ottenuto l’Indicazione geografica protetta (Igp) nel 1996.

I terreni vulcanici e il clima conferiscono al cappero di questa isola caratteristiche organolettiche uniche al mondo, con una trentina di paesi europei ed extraeuropei in cui viene esportato.

Il sistema di terrazzi, con muri a secco costruiti pietra su pietra nel corso del tempo, ha favorito la diffusione della pianta e reso più facile la raccolta dei boccioli.

I 200 produttori associati costituiscono a Pantelleria una comunità consolidata che si tramanda l’arte di coltivare la pianta e raccogliere i boccioli.

Le successive operazioni di salatura e conservazione, fondamentali per ottenere un prodotto che si caratterizzi per aroma, sapore e consistenza, sono svolte dagli stessi produttori o demandate a piccole aziende conserviere.

Su Il Giornale della Commissione agricoltura e pastorizia in Sicilia venivano descritte nell’anno 1855 le attività legate al cappero di Pantelleria: «I poveri raccolgono i bottoni del cappero nei mesi di luglio e agosto, prima della fioritura, e li vendono a una classe di persone che, dopo averli divisi secondo la grandezza, li premono in salamoia o aceto e poi li mettono in commercio».

Sono le Eolie le altre isole siciliane dove il cappero ha messo radici, con Salina in primo piano, riconosciuta come presidio Slow Food.

Dal maggio di quest’anno il cappero delle Eolie è entrato tra i prodotti a denominazione di origine protetta (Dop) tutelati dall’Unione europea.

Tuttavia, da tempo tra i produttori di Salina e quelli di Lipari esiste un contenzioso sul riconoscimento del prodotto.

A Salina sostengono di essere gli unici a meritare un riconoscimento di questo tipo, per la qualità dei loro capperi e per la quantità prodotta (dei 500-600 quintali che ogni anno si producono alle Eolie, il 90% viene da Salina).

Le numerose prese di posizione sulla questione fanno emergere quanto può essere importante per un territorio avere un riconoscimento ufficiale europeo.

Il disciplinare di produzione e conservazione prevede che il cappero eoliano debba avere i seguenti requisiti: «Un colore verde tendente al senape, con striature violacee; sapore intenso e pungente; odore aromatico, forte, senza inflessione di muffa o odori estranei; calibro non inferiore ai 4 mm per i capperi e non superiore ai 20 mm per i cucunci».

Sono caratteristiche organolettiche che descrivono un prodotto che ha acquisito un ruolo di primo piano nella cucina italiana, un ingrediente di cui è difficile fare a meno.

ANCHE IL CAPPERO DEVE FARE I CONTI con i cambiamenti climatici e i nuovi parassiti.

La prolungata siccità e l’aumento delle temperature stanno alterando il suo ciclo biologico.

Le elevate temperature hanno favorito, inoltre, l’insediamento sul territorio della cimice asiatica che attacca il cappero di cui predilige la linfa contenuta nelle foglie e nei boccioli.

Il fatto che anche questa pianta, che pure ama il sole e i climi aridi e ha esigenze idriche molto limitate, stia soffrendo caldo e siccità e subisca l’azione della cimice asiatica, non è una buona notizia, perché la dice lunga sui processi in atto.

(Articolo di Francesco Bilotta, pubblicato con questo titolo il 15 ottobre 2020 su “L’Extraterrestre” allegato al quotidiano “il manifesto” di pari data)

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