L’insostenibilità della mozzarella fa male alle bufale

 

Bufale immerse nelle loro deiezioni e nel fango fino alle ginocchia, trattamenti farmacologici somministrati senza l’ausilio di un veterinario, un cadavere di bufalo neonato nascosto sotto la paglia.

Queste sono alcune delle violazioni denunciate dall’organizzazione per la difesa degli animali Animal Equality, nel video diffuso nell’ottobre 2019.

Oltre ad un’indagine sotto copertura in un allevamento intensivo in provincia di Brescia, Animal Equality si è avvalsa di video girati in Campania, l’ultimo nell’agosto 2018, dall’organizzazione tedesca Four Paws e delle ispezioni condotte dall’ex parlamentare Cinque Stelle Paolo Bernini dal 2013 al 2018.

«Tutti gli allevamenti presenti nell’inchiesta sono destinati alla produzione lattiero-casearia e sono di grandi dimensioni, intorno ai mille capi» spiega Chiara Caprio, di Animal Equality. In nessuno dei casi si trattava di allevamenti bio.

L’OBIETTIVO DELLA CAMPAGNA Una Bufala tutta Italiana, lanciata da Animal Equality, oltre a riportare agli onori delle cronache il tema del benessere animale negli allevamenti intensivi, è una legge che tuteli il benessere della specie.

Mancano, infatti, norme dedicate ai bufalini.

«Ogni animale ha le sue caratteristiche e una legge generica non potrà mai coprire tutte le esigenze» evidenzia Chiara Caprio.

«Le bufale hanno bisogno dell’acqua, di pascolare, prediligono l’ambiente umido e hanno unghioni che, se non vengono curati, crescono a dismisura e non permettono loro di camminare bene: sono tutti aspetti che andrebbero inseriti in una legge specifica», aggiunge.

A REGOLARE, IN GENERALE, IL BENESSERE degli animali è il decreto legislativo del 2001 che ha recepito in Italia la direttiva europea sulla protezione degli animali in allevamento: non devono provare sofferenze, dolore o lesioni inutili.

Il testo è generico ed essenziale: gli addetti devono essere un numero sufficiente e preparati, gli animali feriti o malati devono ricevere cure immediate e deve essere consultato un veterinario.

Esiste poi il decreto 126 del 2011 sulla protezione dei vitelli che viene applicato anche ai bufalini.

A livello nazionale, pur in assenza di una legge specifica, esiste uno schema di valutazione messo a punto dal Centro di Referenza Nazionale sul benessere animale (CRenBa), presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna, in collaborazione con il Centro di Referenza Nazionale sull’igiene e le tecnologie dell’allevamento e delle produzioni Bufaline (CRenBuf) dell’istituto Zooprofilattico del Mezzogiorno.

Le aree che vengono valutate vanno dalla gestione aziendale alla formazione del personale, dalle strutture alla pulizia degli ambienti e degli animali.

Tra i parametri inseriti nelle schede di valutazione ci sono anche: la deformazione degli unghioni, lo stato di nutrizione, le lesioni cutanee, la mortalità dei vitelli e le mutilazioni.

Il CReNBuf ha elencato anche i requisiti minimi igienico-sanitari e per la biosicurezza. L’ente esegue anche valutazioni nelle aziende, su richiesta degli allevatori.

Lo scopo è quello di evidenziare le criticità e suggerire miglioramenti.

«PER QUANTO CONCERNE LE AZIENDE che gli allevatori ci hanno richiesto di monitorare, i dati sono incoraggianti e mostrano un livello crescente di attenzione verso la tematica» spiega Domenico Vecchio, dell’Istituto Zooprofilattico sperimentale del Mezzogiorno.

Secondo lo studioso di benessere bufalino sono due i fattori che spingono gli allevatori a una maggiore sensibilità: «Il ricambio generazionale e la crescente attenzione da parte dei consumatori».

L’ente organizza incontri e corsi per allevatori ma anche per veterinari, agronomi e biologi.

L’obiettivo è indirizzare le produzioni verso un cambiamento sostanziale: «Ripensare gli allevamenti nell’ottica del One Health, un concetto che abbraccia la tematica del benessere animale così come la biosicurezza, l’impatto ambientale e l’uso consapevole del farmaco».

Pochi controlli e poco accurati.

È la denuncia di Animal Equality rivolta al ministero della Salute e alle autorità sanitarie locali.

Nel Piano Nazionale Integrato 2015-2019 vengono riportati dati del quadriennio precedente (2011-2014) che prevedevano il controllo del 15% degli allevamenti bufalini.

La modalità riportata è quella di un controllo in allevamento da parte del veterinario.

«I CONTROLLI SONO UN NUMERO INSUFFICIENTE» sottolinea Chiara Caprio di Animal Equality: «Spesso chi si occupa di benessere deve verificare anche: la struttura dell’allevamento e l’impiego di farmaci, e per essere più efficaci i controlli dovrebbero essere sempre a sorpresa», aggiunge.

Spesso chi viola le disposizioni di legge viene punito con sanzioni amministrative.

Il veterinario, in base alla gravità della violazione riscontrata, può erogare anche sanzioni penali, in caso di maltrattamento animale.

Proprio su questo punto si battono le associazioni come Animal Equality che chiedono pene più severe per gli allevamenti in cui il benessere degli animali non viene rispettato.

«È molto difficile che un allevamento chiuda o che un proprietario venga interdetto» denunciano.

Secondo l’organizzazione, infatti, l’intento dei controlli è favorire la messa in regola dell’allevatore.

NELL’ALLEVAMENTO BUFALINO, COME IN QUELLO dei bovini da latte, gli animali maschi vengono considerati un problema.

Mentre i vitelli bovini vengono cresciuti e destinati alla produzione di carne, i piccoli di bufalo vengono spesso mandati al macello in tenera età, appena superano i 10 giorni.

Secondo i dati Istat sul totale dei bufalini macellati nel 2017 quasi il 60% erano ancora vitelli.

La percentuale è scesa leggermente nel 2018 al 55%.

L’anagrafe nazionale zootecnica riporta 5.500 bufali tra gli zero e i sei mesi morti in stalla nel 2019.

Non si sa quanti di questi fossero maschi.

«In passato qualcuno lasciava morire i maschi che nascevano con dei problemi» spiega il professor De Rosa del Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli.

«A volte questa pratica era legata al risparmio dei costi di trasporto.

Oggi gli animali vengono ritirati direttamente in stalla e l’allevatore non deve pagare costi di smaltimento» sottolinea il professore.

«IL TENTATIVO DI FAR RICONOSCERE L’IGP DEL VITELLONE bufalino non è andato in porto» aggiunge De Rosa.

Il problema, secondo il professore, è la mancata valorizzazione commerciale della carne, che rimane una nicchia di mercato.

I costi di allevamento, inoltre, sono più elevati di quelli dei bovini, perché i bufali crescono più lentamente.

Sono poche le aziende che hanno deciso di seguire le due filiere: producono latte, carne e salumi.

Spesso si tratta di agriturismi o allevamenti che possiedono uno spaccio aziendale.

«Nel settore sono stati fatti molti i passi avanti» spiega il professor Giuseppe De Rosa: «Oggi la bufala viene allevata in stabulazione libera e non vengono effettuate mutilazioni: come il taglio delle corna o della coda».

Il disciplinare di produzione per gli allevamenti di bufale destinate alla filiera della mozzarella prevede la divisione della stalla in tre aree: alimentazione, movimento, riposo.

La zona di riposo deve avere spazi collettivi e cuccette individuali, separate da muretti o ringhiere, mentre la zona di movimento generalmente è all’aperto, recintata e parzialmente coperta da una tettoia che ripari dal sole.

Anche il pascolamento è previsto dal disciplinare.

Il foraggio con cui devono essere alimentate le bufale deve provenire dall’area.

«DA SEMPRE IL CONSORZIO DI TUTELA SUPPORTA l’evoluzione della parte zootecnica della filiera.

Gli allevatori inseriti nel sistema della Dop, che forniscono il latte di bufala di razza mediterranea italiana da cui si ricava la mozzarella Dop, sono controllati e assistiti in tutte le loro esigenze» sottolinea il direttore del Consorzio Pier Maria Saccani: «Nella nostra filiera abbiamo introdotto il sistema classyfarm (categorizza l’allevamento in base al rischio in ambito di sanità veterinaria) e la check list del nostro organismo di controllo è stata implementata anche per gli aspetti zootecnici».

«IL CONSORZIO STA INVESTENDO ANCHE nella formazione» spiega il direttore: «Nel 2017 è stata creata la prima Scuola di formazione lattiero-casearia del Mezzogiorno, per affiancare ogni anello del comparto e i giovani che si stanno avvicinando al settore.

Il programma dei corsi prevede iniziative dedicate al benessere animale e alla biosicurezza, per aumentare la sensibilità su un tema cruciale per il futuro del comparto».

Un dato è significativo, nonostante la crescita del biologico in Italia e all’estero: sono ancora un’esigua minoranza gli allevamenti di bufale in regime bio.

Tanto che il Sistema di informazione Nazionale sull’agricoltura biologica nell’analisi sul 2019 non inserisce i capi bufalini.

Se consideriamo la regione Campania, in cui si concentrano le aziende zootecniche di bufale, nel registro regionale dedicato alle produzioni biologiche gli allevamenti bufalini non compaiono tra le categorie, ma cercando tra i produttori di mozzarelle sono state inserite nel registro regionale solo due realtà.

(Articolo di Marta Gatti, pubblicato con questo titolo il 12 novembre 2020 sul sito online del quotidiano “il manifesto”)

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