DI VIRGINIA DELLA SALA, IL FATTO QUOTIDIANO, 17 APRILE 2022
L’America che corre in aiuto dell’Europa sul gas ha bisogno di trovare a sua volta chi l’aiuti. La ricetta è apparentemente semplice: basta buttare all’aria gli impegni per la decarbonizzazione, dar mandato ai petrolieri di estrarre di più e rimandare a data da destinarsi l’impegno ecologico. Pure perché le bollette salgono anche negli Usa e i cittadini chiedono risposte. Per questo motivo l’Amministrazione Biden ha annunciato che riaprirà le concessioni per estrarre petrolio e gas sui terreni federali. Circa 144 mila acri di terreno pubblico (582 chilometri quadrati) saranno messi all’asta la prossima settimana. La moratoria su quei terreni era stata uno dei primi atti del presidente appena entrato in carica e la lotta al cambiamento climatico una parte fondamentale della sua campagna elettorale, inclusa la promessa di fermare tutte le perforazioni su terreni pubblici. Secondo quanto riportato dal Financial Times, i nuovi contratti di locazione prevederanno canoni più elevati rispetto ai precedenti (un ritorno a quelli pre-Trump), quindi il 18,75% invece del 12,5%. L’attenuante è che saranno messi all’asta molti meno terreni di quanti finora chiesti dai petrolieri.
Alla base della decisione ci sono le pressioni che il presidente americano sta subendo per l’aumento dei prezzi del carburante, salito del 70 per cento da quando è stato eletto. Biden ha prima provato a intervenire con il rilascio di 180 milioni di barili di greggio dalle scorte strategiche del governo, poi ha tastato il terreno tra i produttori. Nel frattempo si è però anche impegnato a fornire all’Europa 15 miliardi di metri cubi di Gnl, gas in forma liquefatta, entro il 2022 per poi salire a 50 miliardi di metri cubi nei prossimi anni per aiutare a sostiture le forniture russe. Ancora una volta, però, l’annuncio è stato accolto con scetticismo. La decisione, infatti, ha la paradossale caratteristica di non essere utile nell’immediato e di diventarlo (forse) quando invece dovrebbe essere tempo di cambiare paradigma ambientale.
Secondo gli analisti, la produzione di petrolio e gas dalle terre federali onshore rappresenta infatti meno del 10% di quella totale degli Stati Uniti ed è quindi improbabile che il riavvio delle concessioni, che richiederà mesi se non anni per nuove produzioni, farà molta differenza per i prezzi attuali e per la nostra autonomia da Mosca.
Inoltre, come spiega l’Economist, il comportamento dei produttori statunitensi è molto cambiato negli ultimi anni: hanno iniziato a ridurre spesa e debito e a restituire denaro agli investitori con dividendi e riacquisti di azioni. Il loro tasso di reinvestimento è passato dal 154% del 2015 al 43% nel 2021. L’aumento dei prezzi del petrolio che una volta stimolava le attività di perforazione ora ha generato un tasso di crescita di barili al giorno di circa il 5% (fonte Mackenzie) in calo dal 20-25% nel 2018 e nel 2019. Anche gli impianti si riducono (e diventano più efficienti): nel 2019, 900 impianti hanno prodotto 9,9 miliardi di barili al giorno; nel 2022 si è passati a 9,4 miliardi ma con circa 600 impianti.
Insomma,le esortazioni (che alcuni già chiamano suppliche) e i progetti della Casa Bianca potrebbero essere ostacolati dal mercato stesso e dal compromesso trovato per non tradire del tutto le promesse (meno terreni, royalties più alte). Inoltre, secondo le stime, l’aggiunta di anche solo un 1 milione di barili potrebbe richiedere fino a 18 mesi, tra consenso degli investitori e carenza di manodopera e materiali.
Non va meglio con i limiti infrastrutturali. Sempre secondo Mackenzie, l’infrastruttura necessaria per raggiungere l’obiettivo di 50 miliardi di metri cubi di capacità di liquefazione in America (per l’Europa) costerebbe circa 25 miliardi di dollari, esclusi gli investimenti a monte e l’inflazione della catena di approvvigionamento. Un’altra società di ricerca e consulenza, Rystad Energy, ritiene che la spesa potrebbe aggirarsi intorno ai 35 miliardi di dollari. Agli Usa, comunque, abbiamo assicurato un ritorno ai contratti a lungo termine che l’Europa aveva gradualmente abbandonato in favore dei prezzi spot. E più lungo è il contratto, più lontana si fa la data in cui la maggiore potenza mondiale guiderà la transizione ecologica, come promesso.