I consumi aumentano e il pesce diminuisce Stop allo sfruttamento

ALIMENTAZIONE. Ogni italiano consuma 29 kg di pesce all’anno. Se fosse pescato solo nei nostri mari, le scorte finirebbero a marzo. Mediterraneo troppo sfruttato

DI MICHELA MAZZALI, EXTRATERRESTRE-IL MANIFESTO, 9 GIUGNO 2022

A forza di raschiare il fondo del mare, ci troveremo con un pugno di sabbia in mano. Il pesce sta finendo, e non è una battuta ma la triste verità. Il mare è in grande sofferenza, sempre più malato, impoverito e preso d’assalto da più fronti: inquinamento, microplastiche, cambiamenti climatici, ma soprattutto una pesca sempre più intensiva che, utilizzando metodi impattanti come lo strascico, sta depauperando il mare a un ritmo molto più veloce di quanto questo sia in grado di rigenerarsi.

I dati raccolti nel libro Il pesce è finito, di Gabriele Bertacchini, recentemente pubblicato, parlano chiaro: se noi italiani – si legge – dovessimo mangiare solo pesce che proviene dalle nostre acque, questo finirebbe intorno a fine marzo di ogni anno. Mentre un cittadino europeo l’avrebbe terminato i primi di luglio. Si chiama Fish Dependance Day ed è la data in cui le scorte interne di pesce si esauriscono. Un giorno che sta arrivando sempre prima proprio a causa di dell’ingordigia di un mondo che, complice il mercato globale, tratta il pianeta come un enorme supermercato nel quale basta pagare per soddisfare la voglia del momento, a prescindere da ciò che le risorse naturali sono effettivamente in grado di offrire.

Bertacchini cita dati Fao che parlano di un consumo procapite di prodotti ittici in costante aumento, dai 9 chili all’anno nel 1961 ai 20 di oggi. «Tra acquacoltura e catture si parla di oltre centosettanta milioni di tonnellate complessive. L’Italia, secondo dati Ismea ed Eumofa, è uno dei paesi Ue che, a livello procapite, ne fa maggiore uso. Sommando pesci, molluschi e crostacei, ogni italiano ne ha consumati, nel corso 2018, 29 kg contro la media europea di 25». Nel 2003 un italiano in un anno ne consumava poco più di 21 kg. Un incremento di quasi il 40% in 15 anni. Secondo l’ex direttore generale della Fao, José Graziano da Silva, «dal 1961 la crescita annuale globale del consumo di pesce è stata il doppio della crescita demografica».

Un aumento sconsiderato dei consumi che ha portato a un sovrasfruttamento del mare e a un conseguente esaurimento degli stock. Secondo la Fao e Greenpeace, a livello globale, quasi il 90% degli stock ittici è completamente o eccessivamente sfruttato e secondo alcuni ricercatori, dal 1950 al 2000, quasi una zona di pesca su quattro, a livello globale è collassata. Per quello che riguarda il Mediterraneo il libro cita il progetto Safenet finanziato dall’Ue secondo il quale il 78% degli stock è sovrasfruttato. Un numero che sale al 93% secondo i dati dello Scientific Technical Economic Committee for Fisheries per gli stock ittici nelle acque europee del bacino.

Una grande sofferenza per il Mare Nostrum che, pur rappresentando solo lo 0,82 per cento della superficie oceanica mondiale e lo 0,3% del volume degli oceani del pianeta, è uno scrigno di biodiversità visto che ospita circa il 7,5% di tutte le specie marine esistenti, con un’alta percentuale di specie endemiche ma che, proprio per questo, è il mare più sfruttato al mondo.

Una situazione drammatica che, in assenza di misure adeguate, può portare a danni irreversibili alla biodiversità marina. Con la pesca a strascico, infatti, le reti prelevano non solo le specie bersaglio (cioè quelle che consumiamo), ma anche molti altri organismi che formano l’habitat, le risorse e il futuro di queste popolazioni. Senza contare la distruzione della biodiversità dei fondali e le catture accidentali di specie vulnerabili come le tartarughe marine, le cui morti dovute alla pesca a strascico si stimano intorno alle 200.000 all’anno in tutto il Mediterraneo.

Una delle soluzioni è quella di istituire zone di restrizione (Fisheries Ricovery Areas – FRA) chiuse alla pesca di fondo con l’obiettivo di ripristinare la biodiversità e ripopolare gli stock sovrasfruttati. A richiedere l’adozione di queste misure è in particolare MedReAct, organizzazione impegnata nel contrastare gli impatti della pesca indiscriminata sulle risorse marine del Mediterraneo e che è riuscita a portare a casa la prima FRA (Fishery Recovery Area) dell’Adriatico istituita nel 2017, dove la pesca a strascico è stata vietata, producendo in poco tempo risultati sorprendenti con un aumento vertiginoso della biomassa di scampi e naselli e il ritorno degli squali di fondo.

Un modello che, secondo l’organizzazione, andrebbe replicato urgentemente in altre aree vulnerabili, come nel Canale di Otranto . In questa zona di mare si trovano infatti importanti habitat per diverse specie commerciali, come il gambero rosso, il gambero rosa, il nasello e il gattuccio boccanera, alcune fortemente sovrasfruttate, e rare specie vulnerabili, come i coralli bianchi e il corallo bamboo che, se tutelati, potrebbero contribuire al ripopolamento dell’Adriatico. Una richiesta sulla quale convergono non solo ricercatori e ambientalisti ma anche gli stessi pescatori artigianali, che lamentano il rischio imminente di una desertificazione dell’Adriatico, come documentato dal film Anche i pesci piangono, prodotto da MedReAct e firmato dai registi Francesco Cabras e Alberto Molinari.

L’organizzazione ha proposto inoltre la creazione di Fra anche per l’area del “Mammellone” nello Stretto di Sicilia , il Golfo del Leone e il Delta dell’Ebro, nel Mediterraneo nord occidentale. Ma la politica ancora tentenna, anzi fa orecchie da mercante e non è difficile capire il perché considerati gli interessi che smuove la grande pesca industriale. Non a caso si è recentemente formata in Europa un’alleanza per difendere lo strascico che riunisce le associazioni di 14 Stati membri e che ha visto l’adesione per l’Italia di Alleanza Cooperative Italiane Pesca, Coldiretti Impresa Pesca, Federpesca e Unci Agroalimentare.

Sono preoccupati dagli intenti espressi dall’Ue nella sua strategia per la biodiversità 2030 di eliminare gradualmente gli attrezzi di pesca più impattanti e dicono di avere dati, anche scientifici, a sostegno della sostenibilità dei loro metodi di pesca. Insomma, una battaglia che va avanti da tempo e che contrappone le potenti lobby della pesca agli ambientalisti, agli scienziati ma anche a molti piccoli pescatori che fanno molta fatica ad andare avanti. In mezzo c’è un mare sempre più stanco e impoverito che chiede solo di essere lasciato in pace. Almeno un po’.

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