Editoriale di Giorgio Nebbia Sono passati 25 anni da quando il Parlamento ha approvato l’importante legge sulla difesa del suolo che porta il numero “183”. La legge fu salutata da molti come un passo concreto per far cessare o almeno rallentare la lunga serie di alluvioni cominciata nel 1951 con quella del Polesine, poi continuate ogni anno, con alcuni eventi clamorosi come l’alluvione di Firenze del 1966. Da allora era stato un seguito senza fine di disastri territoriali in tutta Italia; anzi l’approvazione della legge 183 fu accelerata dalla grande frana e alluvione della Valtellina del luglio 1986, con 53 morti e 4000 miliardi di lire di allora (circa 4 miliardi di euro di oggi) di danni. La 183 partiva da alcuni concetti noti; la difesa del suolo e la regolazione del flusso delle acque superficiali richiedono una amministrazione del territorio per bacini idrografici, quelle unità geografiche i cui confini, ben definiti, sono lo spartiacque delle colline e montagne. In ciascun bacino idrografico le acque scorrono dalle vette lungo le valli fino al mare attraverso fossi e torrenti che confluiscono nel fiume principale il quale porta al mare il risultato di tutto quello che succede all’interno del bacino: i residui dell’erosione del suolo, le sostanze inquinanti delle città, delle industrie, dell’agricoltura e della zootecnia, ramaglie e tronchi. Purtroppo i confini fisici dei bacini idrografici spesso non coincidono con quelli delle province e delle Regioni, ciascuna delle quali costruisce edifici, strade, ponti, depuratori dove gli pare, senza considerare che non ha senso fare opere di rimboschimento o di difesa del suolo in una valle se nella valle adiacente, dello stesso bacino idrografico, ma “appartenente” ad un’altra amministrazione, le acque irruenti portano a valle terra e tronchi. Non ha senso costruire in una città un efficiente depuratore delle acque se le […]