Termovalorizzatori o inceneritori: una battaglia solo linguistica. Cosa dicono i numeri? Che ne bastano pochi

 

Da una parte c’è il partito dei termovalorizzatori in ogni provincia.

Dall’altra quello degli inceneritori zero.

È una guerra ideologica che rifiuta, a partire dal linguaggio utilizzato, un terreno comune di discussione.

In tutta Europa si usa l’espressione “inceneritori” e si dà per scontato che il recupero di energia ci sia (solo gli impianti più vecchi sprecano il calore della combustione).

In Italia, viste le scarse perfomance e l’alto livello di dispute giudiziarie della prima generazione di inceneritori, spesso si usa la parola “termovalorizzatore” per dare una connotazione più positiva alla scelta.

Ma, al di là della disputa terminologica, bisogna costruire molti inceneritori come propone Salvini o rifiutare di parlarne come replica Di Maio?

In realtà la risposta dipende dal tipo di Paese che si immagina.

Un’Italia che rallenta fino a bloccarsi sul livello di innovazione attuale, che fa la guerra all’Europa anche sull’ambiente, che boicotta le vecchie direttive sui rifiuti e le nuove sull’economia circolare ha bisogno di molti inceneritori per ridurre i danni di un’emergenza continua.

Un’Italia che scommette sulla nuova economia, sul recupero dei materiali, sulle competitività ha bisogno di molti impianti di riciclo e di qualche inceneritore.

Quanti sono gli inceneritori?

Oggi gli inceneritori sono tra 40 e 50.

Dipende se nel calcolo si inseriscono quelli autorizzati ma non più attivi, o quelli per i rifiuti pericolosi.

L’Ispra ne conta 41 distribuiti in modo asimmetrico sul territorio.

In testa c’è il Nord: la Lombardia con 13 impianti, l’Emilia Romagna con 8, il Veneto con 2 (Piemonte, Trentino Alto Adige e Fiuli Venezia Giulia ne hanno uno a testa).

Altri 8 si trovano nel Centro (Toscana, Umbria, Marche e Lazio).

Al Sud ce ne sono 7 (la Sicilia è tra le poche regione a quota zero).

Ma non tutti gli impianti sono uguali.

Gli inceneritori di Brescia e Acerra hanno una capacità di smaltimento rispettivamente di 880mila e 600mila tonnellate annue, altri hanno dimensioni di rilievo, una decina girano al minimo e in modo precario.

È meglio ammodernarli e integrare i punti deboli del sistema o disseminare inceneritori in tutto il Centro Sud?

La proiezione al 2030

La strada scelta dall’Unione europea è molto chiara: l’economia circolare“, ricorda Edo Ronchi, padre della legge del 1997 che ha rilanciato il sistema di riciclo dei rifiuti e presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile.

I vantaggi ambientali sono evidenti, il problema è che quelli energetici ed economici sfuggono a molti.

Ad esempio si parla spesso dell’incenerimento come soluzione per i rifiuti di plastica.

Ma non si tiene conto di fatti concreti.

Primo: la plastica può essere solo una quota del materiale bruciato, altrimenti l’impianto si blocca.

Secondo: per la plastica, così come per la carta e per altri materiali, l’energia ottenuta dai processi di termovalorizzazione è inferiore a quella necessaria a produrre la materia vergine, dunque c’è uno svantaggio anche dal punto di vista energetico.

Terzo: le nuove direttive europee renderanno la plastica in larga parte riciclabile.

E non si può ridurre il problema alla plastica: gli scenari disegnati dal Circular Economy Network, che abbiamo promosso assieme a 13 imprese e associazioni di imprese, disegnano la convenienza economica della transizione verso un’economia che tende ad azzerare i rifiuti“.

Mentre le polemiche sull’impatto sanitario degli inceneritori si riducono (il problema vero è la qualità degli impianti e dei controlli), le distanze tra le parti in causa aumentano proprio sulla questione dell’economicità degli inceneritori.

La battaglia tra i due vicepremier nasce dal caso Napoli.

Se è vero che la città è solo al 38% di raccolta differenziata e che manda rifiuti a Nord al costo di 150 euro a tonnellata, è anche vero che la Campania ha oltrepassato quota 50% superando regioni del Nord e, come ha precisato il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, dovrebbe arrivare al 75% al 2025.

Servono impianti per il riciclo

Dietro la guerra dei due vicepremier c’è un vuoto di strategia industriale.

Si parla solo del presente ma, visto che la realizzazione di un inceneritore richiede tra i 5 e i 7 anni e ha un ciclo di vita di 30 anni, la scelta su quanti impianti costruire deve essere presa in base a uno scenario immaginato in prospettiva.

È quello che ha fatto il Was, l’osservatorio sui rifiuti creato da Alessandro Marangoni, amministratore delegato di Althesys che pubblicherà un rapporto la prossima settimana.

Bisogna partire dai numeri, dai circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani che produciamo ogni anno“, spiega Marangoni.

Esaminiamo il migliore degli scenari possibili al 2030, la data alla quale, per rispettare gli obiettivi Ue, la raccolta differenziata deve raggiungere l’80% in modo da arrivare, con gli scarti, al 65% di materiali riciclati.

Supponiamo che l’intero Paese si collochi ai livelli del Veneto: scarsa produzione pro capite di rifiuti e alta raccolta differenziata.

E che non ci siano ostacoli per l’entrata in funzione degli impianti di trattamento dei rifiuti già previsti.

Si arriverebbe a un saldo leggermente positivo per gli inceneritori, con una capacità autorizzata di 6,54 milioni di tonnellate a fronte di una richiesta di 6,15 milioni di tonnellate.

Ma se lo scenario è quello di un’alta produzione di rifiuti la richiesta sale a 6,8 milioni di tonnellate e il sistema va in rosso per 260 mila tonnellate“.

Lo stesso, secondo i calcoli del Was, avviene per gli impianti di trattamento della frazione umida dei rifiuti urbani, con numeri molto più netti: un leggerissimo attivo (22 mila tonnellate) nella migliore delle ipotesi, un deficit di un milione e 24 mila tonnellate nell’altra.

La conclusione è che se non si costruiscono nuovi impianti per adattare il Paese alle scelte più convenienti dal punto di vista economico e ambientale, con un ragionevole equilibrio tra le aree territoriali, si resta impantanati nell’emergenza“, conclude Marangoni.

 

(Articolo di Antonio Cianciullo, pubblicato con questo titolo il 18 novembre 2018 sul sito online del  quotidiano “la Repubblica”)

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