In queste settimane di impedimenti e reclusioni quel che più mi manca è la libertà di potermi abbandonare all’abbraccio di un bosco di montagna. Certo, le piante addomesticate con cui conviviamo sono in fiore: i prugnoli, le camelie, le forsizie, gli albicocchi, i pruni, i mirabolani, i primissimi ciliegi, le azalee, le peonie. Ma è come se questa primavera ammalata ci impedisse di gioirne, è come se il male che sta mettendo a dura prova la nostra specie avesse condizionato il piacere di godere di questi segni del risveglio, dopo un inverno non climaticamente così rigido, ma di certo lugubre e faticoso. Anche l’acero giapponese inizia a metter fuori le foglie, mentre le rose, che a inizio febbraio lanciavano già segni di vita, sembrano essersi rallentate. Forse anche questo è un segno. Meditare in zazen, come insegnano i maestri giapponesi, mi aiuta a placare parte delle tensioni e della negatività generale che è impossibile non percepire. Alcuni vicini di casa che da anni abitano come se il resto del mondo fosse un rumore di sottofondo, mi dicono che per loro non è cambiato nulla, che sono abituati, e la cosa non mi pare rassicurante, e nemmeno esemplare. Anzi. Non provare nulla per il resto dell’umanità è abbastanza curioso, e mi chiedo quale umanità sia al centro della loro percezione, e allo stesso tempo, visto che anch’io preferisco la compagnia degli alberi a quella di tante altre persone – d’altronde ho scritto cosi tanto di Homo radix, dendrosofia e alberografie – interrogo me stesso: quale idea di umanità è al centro della mia visione? Della mia percezione quotidiana? Tutto è utile per riflettersi, per ragionarsi, per mettersi alla prova e magari, se se ne ha la forza, indirizzarsi lungo un sentiero più alto, più ricco, più consapevole. Spesso mi viene […]