Rifiuti, il riciclo non è economia circolare

 

Il pilastro dell’economia circolare è condensato nel motto: il prodotto più sostenibile che ci sia è quello che non si produce, perché non è necessario.

È una vera rivoluzione, perché toglie di mezzo il pilastro dell’attuale modello economico: il consumismo.

Infatti, se i prodotti durano, sono riparabili, riusabili, ammodernabili, se ne comprano di meno e se ne producono di meno.

In compenso aumentano le attività legate al prolungamento del loro ciclo di vita.

Ed è così che si salva il pianeta.

Puntare sul riciclo implica, nel corrente modello, che più roba da riciclare c’è, meglio è.

Ma riciclare costa energia e materia, quindi non è privo di impatto ambientale.

Puntare sul riciclo è come se in una città in cui è altissimo il numero di feriti per incidenti stradali agli incroci si reagisse aumentando i posti letto negli ospedali invece di mettere semafori e dissuasori.

È sempre la stessa storia: prevenire conviene solo al cittadino, curare conviene a chi produce ciò che serve per curarsi.

Spero proprio di sbagliarmi, ma definire il riciclo come un pilastro dell’economia circolare è in linea con un’affermazione, contenuta in un avviso a pagamento sui principali quotidiani da parte delle associazioni dei produttori di oggetti di plastica mono-uso, nei giorni in cui si ventilava di una plastic tax.

C’era scritto: «I rifiuti costituiscono una enorme riserva di risorse che, se opportunamente gestita e valorizzata, può garantire un approvvigionamento sostenibile e continuo negli anni di materiali ed energia».

Cioè, più rifiuti si producono, meglio è per l’ambiente e per la società.

E questi rifiuti vanno prodotti con continuità, sennò l’approvvigionamento sostenibile si interrompe.

Non tutti la sparano così grossa per portare acqua al proprio mulino.

Ci sono quelli che lo fanno in maniera molto più sofisticata, per abbindolare anche chi ai temi dell’ambiente è molto sensibile.

Esemplare è il caso della Coca-Cola e della Carlsberg, come raccontato in un articolo del Guardian online del 16 maggio (The end of plastic? New plant-based bottles will degrade in a year). Le due multinazionali si avviano verso i contenitori di plastica biodegradabili, l’ideale del riciclo.

Bello, vero?

Centinaia di milioni, miliardi di contenitori usa-e-getta per fare i quali, oltre all’energia e i materiali per il processo chimico, occorreranno centinaia di migliaia di ettari per coltivare la materia prima (mais o altro), assieme a tonnellate e tonnellate di fertilizzanti pesticidi, erbicidi e fungicidi.

E ci vorrà tanta acqua.

Queste migliaia, forse milioni di ettari, non potranno non venire che dalla deforestazione, se non si vuole sottrarre cibo dalle bocche degli affamati destinando alla plastica la produzione prima diretta a loro.

Così non ci sono solo le coltivazioni energetiche a competere con la produzione di cibo, ma anche le coltivazioni di plastica.

Certo, poi coi contenitori possiamo fare compost che torna nei campi, se li trattiamo opportunamente, ben piccola cosa nel ciclo di vita completo, e per di più il trattamento riguarderà solo una frazione di essi, e per la maggior parte resteranno nell’ambiente per chi sa quanto tempo.

Viva la sostenibilità come strumento di marketing e l’economia lineare venduta come circolare.

Mi sa che se continuiamo su questa linea, quella del riciclo come pilastro della sostenibilità e dell’economia circolare, e non come ultima spiaggia, non andremo molto lontano.

Altro che green new deal, piuttosto greenwash new deal.

(Articolo di Federico M. Butera, pubblicato con questo titolo il 28 maggio 2020 su “l’Extraterrestre” allegato al quotidiano “il manifesto” di pari data)

*************************

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Vas