Niente e nessuno era riuscito a piegarlo. I cercatori d’oro illegali, i taglialegna, la polizia, il governo. Nemmeno la giustizia e la condanna per uno stupro che ha sempre negato. Ci è riuscito il Covid 19. Dopo dieci giorni di sofferenze e malattia, muore Paulinho Paiakan, capo della tribù Caiapó Bep’kororoti, figura carismatica nell’Amazzonia indigena, leader amato e rispettato dalla folta comunità dei nativi brasiliani, protagonista di mille battaglie, artefice della Carta Costituzionale che nel 1988 ha sancito il diritto alla terra per 900 mila indigeni delle 240 tribù presenti in Brasile. Aveva 67 anni ed è deceduto nell’ospedale regionale di Rendençao, nel Sud dello Stato di Pará. Assieme a nomi come Mario Juruna, Tuíria Kayapó, Ailton Krenak, Álvaro Tukano e Raoni Metuktire, il capo Paulinho ha scritto la storia degli indigeni moderni, i loro scontri, le loro sconfitte e le loro conquiste. Una storia che parte da lontano. Dai primi anni Sessanta del secolo scorso. Paulinho è ancora un bambino. Viene portato dai missionari ad Altamira. Diventa il primo “uomo dei fiumi” a scoprire il mondo dei bianchi, a imparare il portoghese. Nel 1971 è assunto dal Funai, la Fondazione nazionale dell’indigeno. Lo prendono perché grazie a lui pensano di potersi avvicinare a quel folto gruppo di indigeni che resiste alla costruzione della Transamazzonica, la grande arteria che taglia in due la foresta pluviale. Il capo dei Caiapó non era contrario a questo sfregio. Ma si chiedeva se fosse proprio necessario, se non avrebbe aperto altre strade, quelle dei minatori illegali, dei tagliaboschi, di tutto quell’esercito di avventurieri e criminali attirati dall’oro, dalla ricchezza che l’Amazzonia nasconde sotto il suo mantello verde. Cosa puntualmente avvenuta. L’esperienza nel Funai è importante per Paulinho. Decide comunque di tornare nel suo villaggio, Aukre, per scrivere il suo primo libro: racconta cosa ha visto tra i cantieri della Transamazzonica. È un successo. La […]