Da Mogol-Battisti a Jovanotti. Quando la musica si tinge di verde

 

Poco meno di un anno fa sono stati i Coldplay a fare una scelta radicale quanto necessaria se si vuole trasformare le parole in fatti, annunciando che avrebbero smesso di fare concerti e tour fino a quando non avrebbero potuto realmente presentare degli eventi live veramente sostenibili in termini ambientali.

Non è stata una scelta fatta per conquistare spazio sui giornali o sui social, ma la presa di coscienza di un problema vero: la musica dal vivo contribuisce a danneggiare l’ambiente.

Non è un tema nuovo, il mondo del rock e del pop, o almeno la parte più cosciente della scena musicale internazionale, si è posta il problema dell’impatto ambientale dei concerti da molto tempo.

Il problema principale è, come sottolineato dalla scelta dei Coldplay, quello dei concerti, che per loro natura consumano una grande quantità di energia ma che portano a un consumo di energia ancora più ampio da parte del pubblico a causa degli spostamenti necessari a raggiungere i luoghi delle esibizioni, oltre che dall’aumento delle emissioni di gas serra, come testimoniato da diversi studi negli ultimi anni.

Da quasi venti anni, dall’inizio degli anni Duemila, sono moltissime le band, gli artisti, i festival che si sono mossi per ridurre il loro impatto ambientale, riducendo il consumo di energia al minimo possibile, come hanno fatto ad esempio i Radiohead, o compensando il consumo con iniziative di recupero ambientale ed energetico.

Per fare un esempio, nel 2007 le emissioni di carbonio degli MTV Days a Roma e Milano furono compensate piantando circa 1500 alberi in un’area in provincia di Pavia, in grado di assorbire una quantità di anidride carbonica pari a quella delle emissioni prodotte dai due festival, stimate in circa 13 tonnellate di CO2, e simili iniziative si sono moltiplicate negli anni da parte di moltissimi artisti e band, italiani e internazionali.

Del resto la musica rock e pop ha fatto della battaglia per la difesa dell’ambiente un vessillo importante nel corso di tutta la sua storia, dai tempi del giovane Bob Dylan fino ad oggi, passando per le campagne ambientaliste di personaggi come Bryan Adams, di Neil Young o di Jackson Browne, di Joni Mitchell come dei Beatles, di Marvin Gaye e di Ben Harper, fino a Father John Misty e Mos Def, i 1975, o la superstar generazionale Billie Eilish, che con il video “All the good girls go to hell”, non solo ha lanciato un messaggio artistico e politico chiaro, ma che ha più volte invitato il suo pubblico a scendere in piazza per sostenere le battaglie ambientaliste in tutto il mondo.

E l’elenco potrebbe continuare a lungo, sono centinaia i cantanti e le band che hanno messo la loro arte a disposizione della salvaguardia ambientale.

Solo che nel pieno del 2020 cantare non basta più e per molti artisti avere un’attività “sostenibile” è diventata una priorità.

Così i già citati Radiohead hanno i loro camion e bus alimentati a biocarburante, cosi come ha fatto Neil Young, i Massive Attack si spostano solo in treno, mentre molti altri finanziano direttamente associazioni e organizzazione ambientaliste o hanno cambiato le regole dei loro concerti, da Sheryl Crow ai Green Day, dal rapper Drake alla Dave Matthews Band, dagli attivissimi Pearl Jam agli Eagles, da “vecchie” star come Paul McCartney, ambientalista e animalista da sempre, e come David Gilmour che ha da poco messo all’asta le sue chitarre per donare il ricavato, oltre 21 milioni di dollari, al pool degli avvocati di ClientEarth, studio legale non profit che ha fatto delle battaglie ambientaliste il suo core business, fino ai giovani Harry StylesShawn Mendes Tame Impala, che nei loro tour impongono il riciclaggio al pubblico che affolla i concerti e che offrono stazioni di ricarica per l’acqua delle borracce al posto delle bottiglie, o ai Maroon 5 che sono attivi nella lotta contro la plastica in ogni concerto dal 2007. 
La sfida è quella che il cambiamento diventi sistemico“, dice Robert Del Naja dei Massive Attack, “non si può più continuare come prima“. 

E ci sono molte nuove organizzazioni che lavorano al fianco dell’industria musicale su questo campo, come Reverb, mentre le associazioni storiche dell’ambientalismo, prima fra tutte Greenpeace, hanno una lunghissima storia legata alle band e alle star del rock e del pop che hanno messo a disposizione la loro fama per amplificare molte battaglie. 

In Italia i temi ambientali hanno sempre fatto parte del mondo della canzone d’autore e della musica indipendente, ma anche dalle nostre parti dalle parole si è passato ai fatti, come ha dimostrato Piero Pelù che qualche mese fa si è impegnato in un tour di pulizia delle spiagge dalle microplastiche, non suonando quindi ma chiamando i suoi fan ad andare con lui a raccogliere rifiuti nelle tappe del “Clean Beach Tour” con Legambiente.

Il viaggio a cavallo da MIlano a Roma di Lucio Battisti (sinistra) e Mogol, tra il 21 giugno e il 26 luglio 1970 

L’ambientalismo e la musica italiana sono sempre andati d’accordo, dai tempi di Battisti Mogol che attraversavano l’Italia a cavallo negli anni Settanta fino agli odierni Eugenio in Via di Gioia, che non solo hanno intitolato il loro ultimo album “Natura Viva”, ma che hanno realizzato il packaging del disco usando erba riciclata al 100% e hanno dato vita alla “Foresta degli Eugenio” con un crowdfunding che ha visto la collaborazione di Federforeste e Coldiretti, per piantare mille alberi in un area vicino a Trento, o ai Pinguini Tattici Nucleari che in onore agli animali dei quali portano il nome, lavorano con il Wwf per creare una rete di aree marine dove proteggere i pinguini. 

Senza dimenticare Jovanotti, che ha scatenato polemiche spesso roventi con il suo tour Jova Beach Party, del quale ha garantito la sostenibilità ambientale con la collaborazione del Wwf, ma che è stato spesso segnato da polemiche anche molto dure con alcune associazioni ambientaliste italiane, tra cui Legambiente e l’Ente Nazionale Protezione Animali, accusate dall’artista averle alimentate solo per catturare l’attenzione dei media. 

In prima fila c’è anche il mondo del jazz.

Umbria Jazz ha fatto della battaglia per la piena sostenibilità ambientale e sociale del pianeta uno dei temi principali delle ultime edizioni del festival, perseguendo l’obbiettivo “Plastica Zero” nel festival, accanto a quello dell’approvvigionamento energetico da fonti rinnovabili, e quello della digitalizzazione di tutte le attività, mentre la JazzIt Fest di Collescipoli è un festival a impatto zero, così come da oltre undici anni, per fare un altro esempio, il Festival Jazz di Berchidda, in provincia di Sassari, uno degli appuntamenti più importanti dell’estate jazz italiana, porta avanti il progetto Green Jazz. 

Nel giugno scorso si è addirittura svolto un convegno, “Jazz Takes The Green”, promosso da Fano Jazz Network e I-Jazz, l’associazione che riunisce circa 60 festival jazz italiani, con il contributo di MIBACT e il patrocinio della Regione Marche e di Fondazione Marche Cultura.

Insomma, la musica e l’impegno ambientale vanno a braccetto e a rendere chiaro il binomio, in maniera incontestabile, è arrivato anche uno slogan che va per la maggiore, promosso da band come i Foals ma anche da una popstar planetaria come Billie Eilish: “No music on a dead planet“, non ci può essere musica su un pianeta morto.

(Articolo di Ernesto Assante, pubblicato con  questo titolo il 24 ottobre 2020 sul sito online del quotidiano “la Repubblica”)

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