Archivi Giornalieri: 2 Aprile 2020
Le strategie condivise per la lotta alla crisi climatica dovranno attendere. A causa della pandemia di COVID-19 la COP26, conferenza delle nazioni sul clima che si sarebbe dovuta svolgere dal 9 al 20 novembre a Glasgow in Scozia, è stata rinviata a data da destinarsi nel 2021. L’incontro doveva essere uno di quelli decisivi, cinque anni dopo gli Accordi di Parigi, per tracciare una rotta definitiva e condivisa di contrasto alla crisi climatica in corso. Oltre all’evento di Glasgow, rinviato anche il pre-COP, previsto dal 2 al 4 ottobre a Milano, altro momento importante per discutere di strategie. A decidere per il rinvio è stato l’ufficio delle Nazioni Unite per il clima (UNFCCC) i cui membri si sono riuniti virtualmente scegliendo appunto, insieme alla segretaria generale dell’UNFCCC Patricia Espinosa, per uno slittamento al prossimo anno. La scelta arriva in una momento particolarmente delicato. Se le immagini dei satelliti mostrano zone come la Pianura padana sgombre da inquinanti grazie alle politiche di isolamento e al blocco della mobilità e delle industrie in vigore da quasi un mese, questo non deve illuderci sulla situazione generale delle emissioni di gas serra, che continuano ad essere elevate. Quest’ inverno, nel solo Mediterraneo, si è registrata una anomalia termica di oltre 3 gradi e in Europa abbiamo vissuto una delle stagioni fredde più miti di sempre. La COP26 era attesissima, anche fra i giovani guidati da Greta Thunberg e il movimento Fridays for Future, affinché i politici firmassero impegni condivisi e vincolanti per l’abbandono dei combustibili fossili e per soluzioni comuni contro l’innalzamento del livello dei mari, acidificazione degli oceani collegata al surriscaldamento, perdite di foresta e biodiversità, sbiancamento dei coralli e tanti altri. L’emergenza da COVID-19, così come è stato per le Olimpiadi e tantissimi altri eventi internazionali, ha però prevalso. Già in settimana il […]
Giuseppe Onufrio Non è così frequente che un ottimo ricercatore riesca anche a essere un ottimo divulgatore e questo è il caso di Antonello Pasini, climatologo, che con il suo ultimo libro, L’equazione dei disastri (Codice ed., febbraio 2020, 184 pagg., 16€) ci fornisce un quadro molto ampio di come funzionano i cambiamenti climatici e, in particolare, quale sia la situazione dell’Italia dal punto di vista degli impatti e dei rischi specifici che corre il nostro Paese. La chiave di lettura è quella di una (semplice) equazione che collega le probabilità di eventi disastrosi alle caratteristiche di vulnerabilità e di esposizione a tali rischi. Per spiegare al lettore come questa semplice equazione si può applicare all’esperienza comune, Pasini utilizza l’esempio del virus influenzale e mai una analogia poteva essere più collegata all’attualità, cosa che fa certo un’impressione quasi profetica, letta in questi giorni di pandemia. La semplice equazione del rischio dice che questo è il prodotto di una pericolosità P, per la vulnerabilità V e l’esposizione E. Cosa vuol dire? Nel caso del virus è abbastanza semplice: la pericolosità è quella del virus – quanto è aggressivo – la vulnerabilità è quella di ognuno di noi a seconda dell’età, dello stato di salute e altri fattori individuali, e l’esposizione è legata al contatto con portatori – sani o malati – del virus. Questa semplice correlazione spiega anche le misure prese per ridurre il rischio: non possiamo far nulla, infatti, né sulla pericolosità intrinseca del virus né sulla vulnerabilità degli individui, possiamo solo agire sull’esposizione collettiva al virus riducendo i contatti tra le persone. Cosa c’entra tutto questo con il clima e, per esempio, il rischio idrogeologico che caratterizza il nostro fragile e antropizzatissimo Paese? Le connessioni tra cambiamenti climatici e l’espansione di certe malattie (tropicali) è provata e, anche se in […]
Nessun animale deve essere abbandonato. Entra in funzione a Roma un nuovo servizio della Lav di assistenza per gli animali di persone e famiglie concretamente impedite a farlo, per trasferire gli animali che non possono essere accuditi a domicilio presso abitazioni o strutture di accoglienza, per trasportarli in cliniche veterinarie per interventi certificati urgenti, per assistere le colonie feline, per intervenire in altri casi di necessità. Il servizio è disponibile, all’interno del Grande raccordo anulare, chiamando il numero 06.86357303 o scrivendo ad ambulanza@lav.It. “Il servizio parte da Roma città con l’ambulanza che abbiamo potuto acquistare recentemente grazie alle donazioni dei nostri sostenitori e ad un sms sostenuto da responsabilità sociale rai, per dare continuità al front desk d’emergenza attivato, fin all’inizio dell’emergenza coronavirus, dalla nostra associazione 7 giorni su 7, per fornire risposte e soluzioni concrete, a dubbi normativi e problemi legati alla corretta gestione degli animali nella difficile crisi sanitaria: nei primi 15 giorni le richieste pervenute al front desk Lav da tutta italia sono state più di 8 mila. A testimonianza che vi è un grande bisogno di informazioni, chiarimenti e aiuto su molti aspetti che riguardano la corretta gestione degli animali nell’emergenza in corso“, dichiara Gianluca Felicetti, presidente Lav. “Inoltre con i municipi VII (Cinecittà-Appio) e XII (Monteverde-Gianicolense) la nostra sede capitolina ha attivato con enpa e animalisti italiani un servizio di assistenza degli animali dai randagi agli animali in famiglia (320.47955553 – Romaemergenzaanimali@gmail.com) al fine di venire incontro, grazie alla disponibilità di una squadra di volontari, alle diverse esigenze degli abitanti di questi due territori con una popolazione umana di oltre 400 mila persone“, afferma David Nicoli, responsabile Lav Roma. “Lav peraltro è tra le associazioni firmatarie di un protocollo d’intesa con la protezione civile nazionale per l’intervento in aiuto degli animali in situazioni d’emergenza, patto siglato […]
Sammuri: i parchi fondamentali per il recupero fisico e psicologico quando ripartiranno le attività Molti hanno definito la situazione che stiamo vivendo attualmente una guerra. Effettivamente ci sono delle similitudini, il numero ingente di morti, i feriti che in questo caso sono i malati da curare e le conseguenze economiche sul paese. Oggi si può aiutare chi sta in prima linea come il personale sanitario a tutti i livelli e le istituzioni facendo una sola cosa: stando a casa. Poi però ci sarà un domani e, come in tutti i dopoguerra, ci sarà da ricostruire e far ripartire il paese. Li potremo sicuramente tutti dare il nostro contributo, compresi noi che lavoriamo nelle aree protette. In questo periodo i parchi sono tutt’altro che fermi, anzi attraverso lo smart working, progettano, studiano, programmano; le attività di monitoraggio della fauna o di controllo del territorio continuano. Insomma ci si prepara al domani. Ovviamente non sappiamo quando sarà, è però evidente che il ritorno alle attività come erano prima del coronavirus, non avverrà dalla mattina alla sera. Sarà una cosa graduale, a step, con un progressivo allentamento delle restrizioni. Verosimilmente le prime attività che riprenderanno saranno le ultime che sono state interdette, ossia quelle produttive, cosiddette non essenziali. Poi penso che seguiranno gli uffici pubblici, con le cautele del caso, le scuole e infine tutto quello che è legato al tempo libero. Però quello che viene valutato, anche giustamente, all’ultimo posto è tutt’altro che ininfluente sulla ripresa economica, ma anche psicologica del nostro paese. Il primo pensiero va al turismo e a tutto quello che ad esso è legato, ma anche al commercio in senso lato, alle attività culturali, dello spettacolo e ricreative in genere. Oltre allo scontato rilievo economico di questi comparti, essi rappresentano la chiave anche per la ripresa psicologica del […]
La fuga dalle campagne italiane dei lavoratori stranieri europei, principalmente provenienti dall’Est Europa, ha riaperto il dibattito sulla carenza di manodopera locale nel comparto agroalimentare nazionale, a lungo compensata da braccianti arrivati da fuori. A far scappare gli addetti a operazioni essenziali nel lavoro agricolo, dalla raccolta ortofrutticola alla cura del bestiame, è stato il coronavirus, che ha messo gli stagionali con le spalle al muro tra restare a lavorare in Italia o rimanere in patria con le proprie famiglie. In tanti hanno rinunciato alla busta paga, lasciando sguarnito l’intero comparto, come denunciato dalle organizzazioni di categoria. Fatto in Italia da mani straniere “Più di un quarto del made in Italy a tavola che viene raccolto nelle campagne da mani straniere con 370mila lavoratori regolari che arrivano ogni anno dall’estero”, rendeva noto la Coldiretti poche settimane fa, quando i primi blocchi ai confini iniziavano ad avere effetti devastanti sul lavoro in campagna. “In Italia – ricordava l’associazione di categoria con riferimento ai braccianti stranieri – trovano regolarmente occupazione stagionale in agricoltura fornendo il 27% del totale delle giornate di lavoro necessarie al settore”. La richiesta di Gori Motivi che ieri hanno spinto il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, a scrivere su Twitter: “Nell’agricoltura italiana lavorano 400mila lavoratori stranieri regolari, il 36% del totale, la maggior parte dei quali rumeni”. “Quest’anno non arriveranno”, prosegue l’esponente del Partito democratico, che poi si chiede: “Chi raccoglierà gli ortaggi e la frutta? Servono almeno 200mila lavoratori extracomunitari. Serve subito un decreto flussi”, ha concluso, facendo riferimento all’atto che può prendere il ministero degli Interni per far entrare regolarmente la manodopera straniera in Italia. Il decreto flussi di Salvini Stamattina è arrivata la replica del leader della Lega, Matteo Salvini, che sempre su Twitter ha tagliato corto: “Il Pd non si smentisce mai”. “Ma con tutti gli italiani in difficoltà perché il Pd pensa solo agli ‘extracomunitari’?”, si legge nel post del leader leghista. Quest’ultimo è sicuramente al corrente del problema […]