Ci sono luoghi dove a tragedie si aggiungono tragedie. Lo scorso 16 marzo, in piena emergenza mondiale da coronavirus – lo stato di calamità è stato dichiarato in Brasile lo scorso 21 marzo, e al 1 aprile si registrano 6833 casi e 241 decessi nel Paese, con una tendenza all’aumento esponenziale come in tutto il mondo – nella comunità di Piquià de Baixo, nello stato del Maranhão, è avvenuta una grande inondazione. Non si tratta certo di un fatto naturale e inaspettato, quanto di un evento largamente annunciato, previsto e prevedibile. A causa delle forti piogge, infatti, si sono rotte le dighe di diverse discariche di piscicoltura situate a monte del fiume Piquiá. Questo ha causato una violenta alluvione, che ha invaso le case della comunità, distrutto almeno 25 case e lasciato senza un tetto circa 253 persone. Le strutture della comunità locale (chiese, club delle madri, scuole) stanno funzionando da luogo di ritrovo per gli sfollati (circa 17 famiglie, ancora oggi). Anche l’autostrada BR 222, che collega il sud di Maranhão con la capitale, São Luís e altre città del nordest, è stata colpita dalla forza delle acque, e quindi chiusa, bloccando la circolazione in tutto lo stato. Quella che può sembrare una calamità è in realtà il risultato di 35 anni di sfruttamento e la contaminazione di questo territorio, oltre alle continue violazioni dei diritti umani, da parte della azienda Vale Sa, la stessa azienda responsabile per la rottura della diga di Brumadinho nello stato del Minas Gerais, che qui produce ferro, cemento, acciaio ed energia termoelettrica. «L’ideologia della crescita economica e il profitto a qualsiasi prezzo – dicono dalla comunità – generano una sequenza di disgrazie e la necessità di misure urgenti». La Vale Sa si è istallata nel territorio di Piquià nell’ambito del programma “Grande […]