Riflettevo sull’Europa, tra vette e laghi, al non-confine tra Italia, Austria e Slovenia. La prima riflessione non era tra le più entusiasmanti: l’inflazione. Concetto apparentemente semplice, che ricordo in analogia con la febbre corporea. Una febbre tra 36.5 e 37 è come un’inflazione tra 2 e 4, sopra il 7-8% l’inflazione diventa una febbre preoccupante, ma sotto l’1% il corpo non denuncia certo segnali di benessere, anzi, può essere peggio. E attualmente l’inflazione è – a più di 5 anni dal ‘whatever it takes’ di Mario Draghi che ha salvato l’euro – ancora al livello 1,1% nell’area euro e in Francia, 1,7% in Germania, 0,5% in Italia. Sintomi decennali di deflazione da ‘scarsa domanda e bassi consumi ed investimenti’ di un’area, l’Europa, sbilanciata sull’export come determinante della crescita. Sbilanciata, non sostenibile, iniqua, anche in Germania dove la crescita sociale ed economica, legata solo all’export, essendo a macchia di leopardo e non sostenuta da adeguati consumi pubblici e privati, genera diseguaglianze territoriali crescenti. Ancora oggi la Germania presenta un avanzo pubblico con disoccupazione europea al 7,5% (UK 3,6, Giappone 2,3, Cina 3.6, USA 3,7) abnorme e patologico, fuorilegge secondo le stesse norme dell’Unione europea. Direte, cosa c’entra l’ambiente? Ricordo che nel 2011, alla presentazione al Tesoro della proposta avanzata dall’Agenzia ambientale europea per definire una riforma fiscale ecologica per l’Italia (che vale circa 30 miliardi di euro nuove entrate), le ovvie e sterili critiche erano legate agli effetti inflattivi, dovuti, della fiscalità ambientale. A 8 anni di distanza siamo punto a capo. Con inflazione bassissima il fisco verde potrebbe aiutare la Bce a sostenere crescita e prezzi. Ricordo pure che The Economist ha più volte sottolineato che per ‘salvare’ e creare un euro stabile, la Germania dovrebbe accettare un’inflazione del 3% per anni, fino alla riconquista della piena occupazione. In Germania, a […]